Che alcuni deputati del Pd definiscano poco chiara l’esclusione del film Tortora, una ferita italiana dal Festival di Roma io la trovo cosa bizzarra, anche se un po’ c’è da aspettarselo nel caso di un Festival che fin dalla sua nascita è stato fin troppo condizionato dalla politica e dai partiti.

Che piaccia o no,  un film va ad un Festival se un ristretto gruppo di persone, capitanate dal direttore, lo ritiene valido o comunque in linea con un’idea di cinema che quel gruppo intende rappresentare. E’ chiaro che nelle doti che deve avere un direttore di un festival c’è anche quella di sapersi barcamenare tra pressioni politiche e di potere, prova ne siano le innumerevoli edizioni del Festival di Venezia, ben più importante di quello di Roma, in cui in maniera quasi matematica i film in concorso sono stati divisi tra Raicinema e Medusa, con presenza fissa di Cattleya e Fandango.

Ma accanto a questa un direttore di festival deve avere altre doti: credibilità a livello internazionale; capacità di promettere, senza obbligo di mantenere; un’idea forte di cinema; eleganza nei modi; buona dialettica; saper essere al posto giusto nel momento giusto.

Marco Muller, l’attuale direttore del Festival di Roma, queste doti ce le ha tutte, tanto da poter essere considerato uno dei migliori al mondo, perché queste doti, non crediate, valgono in tutto il mondo. Che abbia scelto, insieme ai suoi collaboratori, di non invitare al Festival quel film, insieme a tantissimi altri, è cosa più che legittima. Che questa scelta scateni uomini di un partito allo sbando a chiedersi perché e a cercare un risarcimento, volendo costringere la Rai, anche mediante interpellanza parlamentare, ad acquistarlo e a mandarlo in onda è cosa che spiega bene a che punto di rottura sia arrivato il rapporto tra la politica e la cultura.  

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