In questi giorni in cui una mole di eventi più o meno incalcolabile mi ha reso impossibile proporvi, prima di oggi, uno stralcio di articolo, le mie riflessioni si sono poggiate su quanti di voi – in relazione al mio pensiero su “Lightning Bolt” dei Pearl Jam – obiettavano che forse, sotto sotto, io non ascoltassi altro che (diciamola mola) “roba mainstream”. Premesso che non sarebbe una colpa, detto anche che non è un dovere farsi un giro da queste parti e specificato pure che non è evidentemente vero nel mio caso, mi fa sempre sorridere la brama, il desiderio solo apparente di voler ascoltare qualcosa di nuovo che poi, il 99,9% delle volte, non si tramuta mai in un atto concreto quanto piuttosto in qualcosa da far notare o rimproverare agli altri.
Ciò detto, per quanti di voi ne abbiano veramente voglia ma anche per coloro che si trovano ad inciampare in questo scritto un po’ come i pali della luce il sabato sera, siamo qui a parlare di una band nuova: con buona pace dei più.
Il gruppo che intendo portare alla vostra attenzione risponde al nome di Cloud Control, che con questo Dream Cave uscito in estate ci regala un piccolo gioiellino di musica contemporanea, ben espresso nelle molteplici tendenze che – a mo’ di matrioska – vi trovate insite. Attirato dalla bellezza apatica del primo singolo Dojo Rising – un brano che forse pure i Pixies si sognerebbero mai di riuscire a scrivere – mi sono deciso ad acquistare l’intero album, onde evitare di lasciare il tutto all’anonimato del tempo cui la maggior parte delle formazioni e delle uscite odierne è destinata, in nome di un sound talmente indefinito che molto spesso, se non sempre, basta appunto una canzone a dirti tutto.
Così, senza neanche accorgercene veniamo catapultati nel balletto di fine anno della successiva Promise, che se da una parte sembra voler farsi beffa dell’intera discografia dei Righteous Brothers, dall’altra fornisce ai Cloud Control una corposità d’animo che latita non poco, vittime anche loro di una sorta di cazzeggio musicale che dalla quarta “Moonrabbit” – che pure è gradevolissima – sembra perdersi nel magico e insensato mondo dell’indie-rock, con la stessa credibilità di chi afferma di partire per Amsterdam ansioso di visitare il “Van Gogh Museum”.
Loop che persiste almeno fino alla settima Scar, che seppure ci fa tremare alla comparsa di un pericoloso terzinato di synth, si apre poi limpida verso una valle di colori, in nome di un’essenzialità e di una direzione finora un po’ confusa ma recuperata, forse, per tempo.
Happy Birthday si fregia di una cupezza quasi orgogliosa, che non è propria del compleanno quanto piuttosto forse del funerale di qualcuno: ma il nostro giudizio non ricadrà su questo, quanto sulla scorrevolezza di una canzone che, rincasando, porta – nella sua leggerezza – il pane a casa.
Di lì in poi quel che ci viene servito è un encefalogramma quasi piatto, che non fa gridare al miracolo ma neanche alla morte clinica per merito dell’ultima omonima Dream Cave, forse il punto più alto dell’intero disco, posta forse un po’ per merito un po’ per dispetto proprio in fondo. Le atmosfere sono quelle già narrate all’inizio, con melodie che sembrano ripercorrere gli abbracci equivoci delle grandi occasioni di fine anno, dove più che accompagnati i Cloud Control sembrano voler prendere parte in solitudine, comunque sicuri di una proposta musicale che convince quanto – per ora – arranca.
Non un capolavoro assoluto – parola mai troppo incautamente utilizzata – ma una conferma sulla via di Damasco rispetto al precedente Bliss Release, di 2 anni più vecchio. Una band che ha più di qualche idea buona, che forse attende solo di legarsi a matrimonio con un sound più caratteristico di quello fin qui sfoggiato e che, azzeccati altri 2 brani ‘da classifica’ come per i singoli qui citati, potrà se non altro arrivare ad un pubblico più vasto: sperando faccia una fine migliore dei Killers, così come degli Editors per altri versi.
Io glielo auguro con tutto me stesso.