Che sindaco sarà Bill de Blasio? Come governerà New York? Sono le domande che molti newyorkesi si fanno in queste ore di vigilia elettorale. Martedì 5 novembre, New York elegge il suo nuovo sindaco e il 52enne democratico de Blasio (a destra nella foto) è destinato a una sicura e schiacciante vittoria sul rivale repubblicano Joe Lhota (a sinistra). Un sondaggio Quinnipiac University dà a de Biasio il 65 per cento dei consensi, contro il 26 per cento di Lhota. “Le mie idee sono progressiste e audaci”, ha detto de Blasio a un comizio nell’Upper West Side sabato pomeriggio. Questo è del resto il senso più forte della sua candidatura: un liberalismo energico, un populismo democratico e radicale come se non se ne vedevano da tempo sulla scena politica americana. 

New York è una città liberal e progressista, ma negli ultimi decenni non ha mai votato un sindaco dichiaratamente liberal. Michael Bloomberg e Rudy Giuliani erano repubblicani (soltanto in occasione del terzo mandato Bloomberg si è presentato come indipendente); i democratici David Dinkins, Ed Koch e Abe Beame mantennero sempre un’attitudine moderata e da “macchina di partito”; e per trovare a un primo cittadino liberal, bisogna risalire a John Lindsay, che governò dal 1966 al 1973 ma che apparteneva al partito repubblicano.  

Sin dall’inizio de Blasio, passato politico alla corte dei Clinton e attuale “garante” della città di New York, non ha invece avuto paura di professare un pensiero e un progetto politico tutto rivolto alla difesa dei più deboli e alla riduzione delle differenze sociali ed economiche. Tenace critico della città del milionario e flamboyant Bloomberg, spaccata tra troppo ricchi e troppo poveri, de Blasio vuole tassare chi guadagna più di 500 mila dollari, promette di costruire 200 mila nuovi appartamenti di edilizia popolare, punta a potenziare e rendere gratuiti i servizi di kindergarten e doposcuola, giura sulla possibilità di riformare lo “stop and frisk” e tutti quei programmi della polizia di New York che hanno preso di mira neri e ispanici.

“Il racconto di due città”, ha spesso definito la New York di oggi Bill de Blasio: la metropoli rampante e benigna con i più ricchi e così difficile da vivere per i meno abbienti. Il messaggio alla fine ha fatto breccia in un immenso centro urbano effettivamente scosso e travolto da enormi differenze: il 46 per cento dei newyorkesi vive vicino o sotto il livello di povertà; 50 mila persone sono senza casa; il 20 per cento di abitanti più poveri guadagna 8.993 dollari all’anno, il 5 per cento più ricco porta a casa 436.931 dollari. La retorica politica si è intrecciata all’esempio personale. De Blasio ha dipinto la sua vita come “modesta e normale”: una moglie (la scrittrice afro-americana ed ex-femminista radicale Chirlane McCray), due figli, una casa come tante altre a Park Slope. La famiglia multirazziale, che si è spesa moltissimo in campagna elettorale, ha aiutato ulteriormente de Blasio, in una città che è per il 33,3 per cento bianca, ispanica per il 28,6, nera per il 25,5 e asiatica per il 12,7. 

Populismo urbano” è la definizione che alcuni politologi hanno dato dell’avventura politica di de Blasio: un misto di antico rooseveltismo, retorica anti-ricchi, nuovi equilibri razziali, fermenti movimentisti alla Occupy Wall Street. Ciò che è sicuro è che la sua piattaforma contraddice praticamente ogni progetto politico di sinistra arrivato al potere in Europa e negli Stati Uniti negli ultimi decenni: non cerca di rassicurare il grande capitale, non si ammanta di moderatismo come i new democrats Tony Blair o Bill Clinton, non ha paura di parlare della necessità di “assistere” i più deboli, denuncia le differenze economiche come storture da correggere. E questo nella città che è stata ed è il centro del potere finanziario e di un’ideologia globalizzata e capitalistica.  

Joe Lhota, lo sfidante repubblicano, un politico di nessun appeal e che in campagna ha parlato soltanto di tagliare le tasse, ha detto che “con de Blasio, New York tornerà a strade insicure e palazzi bruciati”. In realtà. De Blasio è un politico molto più pragmatico di quanto lui stesso voglia ora apparire: il suo padrino è proprio il “centrista” Bill Clinton, i suoi strateghi politici sono stati altri moderati come Harold Ickes e Bill Lynch e più volte nel passato de Blasio si è schierato a favore dei grandi costruttori e contro le richieste dei gruppi civici (per esempio con l’Atlantic Yard, l’enorme centro residenziale e commerciale in costruzione a Prospect Heights). I costi per pensioni e sanità dei dipendenti comunali, e i crescenti interessi sul debito, costringeranno poi de Blasio a una disciplina di spesa molto più conservatrice di quanto sbandierato in campagna elettorale. 

Ciò non toglie che la sua probabile vittoria, e i prossimi anni come sindaco, abbiano un valore che va al di là della pura e semplice amministrazione. La New York di Bill de Blasio sarà un probabile test di governo per la sinistra, non solo americana, e la prova che i movimenti di protesta urbana e dal basso di questi anni, da Occupy Wall Street agli indignados, cominciano a sostanziarsi in progetti politici concreti. “Sono qui per raddrizzare le ineguaglianze”, ha continuamente ripetuto in questi mesi il candidato democratico. Tanto da guadagnarsi l’appellativo di Che de Blasio da parte dei giornali conservatori.

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