Governo e Parlamento approvano la più grande disdetta di contratti pubblici degli ultimi anni: combinando decreto stabilizzazione e blocchi della legge di stabilità rischiano di saltare 190mila posti in sanità, ricerca, enti locali. Guerra di numeri tra Ichino e i ricercatori: “Ne prendiamo 10mila, gli altri troveranno lavoro nel privato”. L'esperta di statistica (precaria): “Dati falsi, mi offro come sua badante”. Il comma paradosso: deroga di un anno per i precari delle Province, ma il governo vuole abolirle entro un mese
Dopo il mezzo flop del bonus assunzioni, che sembra galleggiare al di sotto delle previsioni, si apre un’altra falla sotto i piedi del governo: il decreto 101/2013 che doveva stabilizzare 120mila precari nella pubblica amministrazione, combinato alle bozze della Legge di stabilità, rischia invece di creare 190mila disoccupati in più a scapito della sanità, della ricerca, dell’amministrazione e degli enti locali. E di mandare in porto la più grande potatura di contratti pubblici degli ultimi anni, con buona pace dei propositi governativi sul rilancio del lavoro.
E’ stato un attimo: il tempo di sminare il decreto dagli emendamenti che ne avrebbero attenuato la portata e di votarlo, mettendo in sicurezza l’alleanza di governo che rischiava di incrinarsi anche su questo. E 190mila posti sono spariti di colpo, nella maniera più facile: saranno cancellati per mancato rinnovo alla naturale scadenza, evitando così di incorrere in allarmi sindacali o dibattiti sui giornali, con la sola voce degli interessati coperta dalla soddisfazione dei ministri per lo scampato pericolo. Il risultato, in assenza di correttivi, sarà invece drammatico sotto il profilo dell’occupazione. E non risparmia da subito situazioni grottesche, come la deroga fino a dicembre 2014 per i precari delle Province che il governo promette di abolire il mese prossimo, cioè un anno prima. Dal punto di vista politico, intanto, il pasticcio si risolve in una serie di gaffe: il Pd che all’indomani del voto spende cifre a casaccio sostenendo – come fa Paola De Micheli – di “aver creato 10mila posti di lavoro” e il Pdl che, con Renato Brunetta, si sfrega le mani per aver prevalso ancora sull’alleato di governo, imponendo l’ennesima mazzata al pubblico impiego.
E allora, meno precari o più disoccupati? L’unica voce governativa che ha dato i numeri, suo malgrado, è stato Pietro Ichino (Sc). Durante la discussione del provvedimento il giuslavorista ha ammesso e rivendicato – è a verbale – che dei 200mila precari della pubblica amministrazione solo 10mila potranno accedere ai percorsi di stabilizzazione, gli altri dovranno rassegnarsi a rivolgersi al mercato privato del lavoro che “nel 2012 ha attivato un grande flusso di contratti a tempo indeterminato: 1,7 milioni”. Da qui l’operazione-verità di Ichino: “Chiedo, perché mai dovremmo indurre 200mila giovani a puntare su quei 10-12mila posti di lavoro che le amministrazioni pubbliche possono offrire loro e a rinunciare invece alla prospettiva di immettersi nel grande flusso di 1,7 milioni di contratti che le aziende private e il tessuto produttivo offrono loro? ”. Tutto fila, bene tagliare la “spesa improduttiva”. Meglio, se c’è un altro comparto pronto ad assorbirla. Ma i precari della P.a. sono davvero improduttivi? Troveranno poi lavoro nel “grande flusso” del privato?
Pare proprio di no. Uno scherzo del destino ha voluto che a far parte della folta platea degli esclusi dalla stabilizzazione ci fossero anche i precari della ricerca che di mestiere si occupano del monitoraggio del mercato del lavoro per conto del governo. Che a stretto giro di posta rispondono al giuslavorista scodellando dati e analisi che smontano l’assunto del “grande flusso” e del “privato che accoglie”. “Quel milione e 700mila – scrivono sulla rete della ricerca pubblica – è una mistificazione. E non solo per quello che si legge sui giornali sull’andamento dell’economia (40,2% di disoccupazione giovanile). Quel numero è il prodotto di clamorosi errori metodologici”. Spiegano i lavoratori dell’Isfol, che presto potrebbe subire lo svuotamento del personale precario, che quel 1,7 milioni si riferisce agli “avviamenti” e non a singoli posti di lavoro. Non tiene poi conto dei 2,2 milioni di cessazioni nello stesso anno, di cui 826mila per licenziamenti, dato per altro in crescita rispetto agli anni precedenti. Fanno notare anche che nel primo trimestre 2013 si è registrata addirittura una contrazione dei contratti a tempo indeterminato del 10,2% rispetto allo stesso trimestre del 2012*.
* Fonte: Ministero del Lavoro, Dinamica avviamenti contratti di lavoro, luglio 2013
Quindi tutta questa disponibilità di posti nel privato non c’è. Chiarito questo tocca capire se potranno però ricavarsi un posticino, riciclarsi in quel poco che c’è, infondo sono laureati con esperienza di livello. Ma dove? Chi sono gli assunti di cui parla Ichino? “Tra gli uomini assunti a tempo indeterminato nel 2012, il 20% è composto da manovali edili, facchini e muratori. Tra le donne il 35% (294 mila) sono addette all’assistenza personale e collaboratrici domestiche. Seguono camerieri, baristi, cuochi, bidelli*. Da qui la battuta “Elaboro statistiche per il Ministero, posso andare a fare la badante da Ichino?”.
* Rapporto annuale sulle comunicazioni obbligatorie, Ministero del Lavoro e Politiche sociali, 2013.
Ci sono, poi, i dimenticati dal decreto “stabilizzazioni”. Sono ricercatori con contratti co.co.co, eterni collaboratori chiamati a rimpinguare gli organici degli enti pubblici al palo da decenni, frotte di giovani a cui per anni è stata fatta la promessa, mai mantenuta, di riaprire, presto o tardi, la strada della regolarizzazione. E che ora sono candidati a una vita da esodati di serie c, senza lavoro, ammortizzatori sociali e il miraggio della pensione. E pazienza se molti sono stati (e sono ancora) l’ossatura che tiene insieme il corpo molliccio della ‘cosa pubblica’: personale in servizio in ospedali, asl, uffici comunali ed enti di quella ricerca che, a parole, tutti vogliono sostenere e rilanciare. “Ci hanno bollato come spesa improduttiva, ma molti di noi sono quelli che ti vengono incontro nei pronto soccorso”, spiega D.R., medico precario del Policlinico Umberto I, 34 anni. “Il mio lavoro rischia di finire con la scadenza del contratto di formazione specialistica. Non sappiamo quanti sono nelle mie condizioni e non lo sa neppure chi ha deciso di tagliare. Ma potete entrare in un ospedale o pronto soccorso qualsiasi ed esser certi che tra i medici che incontrate sui 40-45 anni, uno su due è precario. Potete giocarci una monetina, mi sto specializzando in direzione sanitaria, sono numeri che conosco molto bene”.
Il suo destino, insieme a quello di migliaia di lavoratori, è stato scritto una settimana fa, quando il Senato ha approvato il tormentato decreto 101/2013 che era stato varato dal governo il 31 agosto e doveva essere convertito in legge entro il 31 ottobre, pena la decadenza. Era nato come “decreto per la stabilizzazione dei precari della P.a.”, ma nella spola tra governo-Senato-Camera e ancora Senato ha visto via via assottigliarsi la platea delle proroghe, fino ai 10mila posti risicati di cui parlava Ichino. Se ne sono accorte da tempo le rappresentanze della ricerca che chiedono ai confederali di “prendere atto delle conseguenze dei meno rappresentati e di raddoppiare lo sciopero di almeno 8 ore e non 4. I sindacati nazionali sono arrivati “lunghi” e solo ieri hanno diramato una nota unitaria per chiedere un incontro urgente al governo. “Il Parlamento ha ulteriormente peggiorato il dl”, affermano Cgil, Cisl e Uil ammettendo finalmente che “non vi è alcuna prospettiva per migliaia di persone che da anni lavorano come precari nelle Pubbliche amministrazioni”.
Perché? L’ipotesi di stabilizzazione è stata riservata ai soli precari a tempo determinato e ha visto via via subordinare le possibilità di proroga a condizioni più stringenti, fino all’impossibilità materiale di procedere. Esclude i co.co.co, gli assegnisti, le partite Iva, i consulenti. E quanti sono esattamente? Non si sa. Anche perché la Ragioneria dello Stato contabilizza e monitora quelli delle amministrazioni centrali (ad esempio, solo nella ricerca pubblica, sono indicativamente 5mila tempi determinati, 5mila cococo) ma non quelli degli enti locali e delle Asl che hanno sistemi di comunicazione del personale a contratto che non confluiscono necessariamente in elaborazioni centrali, dati comunque non disponibili ad oggi (come fu per gli esodati). In altre parole, quando c’è una proroga in ballo, sono le Regioni che vanno dal Ministero e i tavoli negoziali e spesso procedono separatamente, situazione per situazione. “Al punto – spiegano ancora i ricercatori della Rete Ricerca Pubblica– che nei dati ufficiali non si riesce ancora a disaggregare quello degli avviamenti della pubblica amministrazione dal privato. La qualifica di infermiere, ad esempio, è spesso riportata con l’indicazione se è a tempo determinato o indeterminato, ma non puoi sapere se lavora nel pubblico o nel privato”.
Su questo caos di cifre piomba il decreto e fioccano gli emendamenti che irrigidiscono ulteriormente i paletti dei “prorogandi”: i contratti in scadenza al 31 dicembre possono sì essere prorogati per i tempi determinati, ma solo se l’ente ha copertura finanziaria e posti vacanti in pianta organica (con l’eccezione degli enti pubblici di ricerca che possono prorogare contratti finanziati da fondi internazionali). Più o meno le stesse condizioni valgono anche per i percorsi di “stabilizzazione”: l’amministrazione può procedere a un concorso e riservare il 40% dei posti ai precari che in quell’ambito hanno maturato un’esperienza specifica. “Tre condizioni: copertura finanziaria, posti in pianta organiche e sblocco del turnover, che significano una sola cosa: metterci tutti alla porta”, spiegano i precari. “Il blocco del turnover nella Pa va avanti dal 1993 e la legge di stabilità, nelle bozze che circolano, lo proroga e rafforzara”. Per fare un caso concreto prendiamo l’Isfol (Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori): i precari sono 252 e soltanto 8 i posti vacanti in pianta organica. Significa che, se anche ci fossero le coperture e nessun blocco, soltanto 4 potrebbero rientrare, gli altri resterebbero tutti a casa. Poi toccherà capire come farà il ministero a elaborare i dati sul lavoro, avendo il governo cancellato insieme ai contratti le competenze, gli incarichi e i ruoli che fino a ieri ha ritenuto necessari, ancorché precari. E in Isfol non sono i più sfortunati, in Ispesl (Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro, ndr) ci sono 500 co.co.co da dieci anni, in Ingv ce ne sono 400 di precari e fanno monitoraggio dei terremoti. Così il tema di come conciliare il taglio alla “spesa improduttiva” con la produttività dei servizi rischia di diventare, nei prossimi anni, la spina nel fianco dello Stato. E in ogni caso, dai numeri in ballo, si capisce che la partita del pubblico impiego per il governo non è ancora finita ma solo cominciata. E sarà una sfiancante guerra di trincea.