Nel frattempo, il candidato sindaco di New York Bill de Blasio stravince proponendo di virare le riduzioni fiscali del suo predecessore, riservate a finanzieri di Wall Street e costruttori di torri di lusso, a investimenti in asili nido e case popolari.
Certo, per un vecchio borghese come il sottoscritto la tenuta sbulinata di Accorinti è un po’ irritante (il mancato rispetto delle forme mi sembra una corriva concessione allo “snobismo da sanculotto”); per l’europeo schizzinoso nei confronti di un certo melange politico-affaristico nordamericano, induce una qualche sospettosità apprendere che la lobby degli immobiliaristi ha deciso di appoggiare de Blasio.
Ma sono solo quisquilie. Quanto davvero conta è la ripresa di militanza urbana che questi personaggi riescono ad attivare.
Possiamo leggere le due vicende come un unico segnale a conferma delle tesi di quanti indicano le città come i luoghi in cui si può rifondare democrazia e civismo?
Nella crisi di politiche nazionali sempre più dipendenti dalle invenzioni manipolatorie dei creativi, che “vendono” i leader presunti carismatici come marchi riducendo la progettualità a ingannevoli trovate pubblicitarie e teatralità a scopo di raggiro, l’idea di ripartire dall’uscio di casa sembra l’unica scelta vincente a disposizione. Ne ha scritto l’anno scorso il mio amico Manuel Castells (“Reti di indignazione e di speranza”) parlando del ruolo rivoluzionario di “idealisti pragmatici” che si riappropriano dei problemi nelle piccole dimensioni, visto che «la classe politica è diventata una casta capace di autoriprodursi, intenzionata a salvaguardare gli interessi dell’élite finanziaria e a preservare il proprio monopolio sullo Stato». Ci ho provato io con un libricino uscito questa primavera. Torna ora sul tema un “pezzo da novanta” come David Harvey (“Città ribelli”): «il nostro principale compito politico consiste nell’immaginare e ricostruire un modello di città completamente diverso dall’orribile mostro che il capitale globale e urbano produce incessantemente». Del resto tutti i casi di rilancio che da un trentennio si realizzano in Europa – da Barcellona a Stoccarda, da Lione a Lisbona – sono a scartamento civico.
Ma anche in Italia è da un pezzo che si stressa questa idea; almeno a partire dal 1993: legge per l’elezione diretta del Primo Cittadino. Con una sfilza di delusioni conseguenti. Allora i Bassolino e i Rutelli, ora i De Magistris o i Pizzarotti (ed è in arrivo per novembre un’inchiesta di MicroMega sull’ultima infornata di cosiddetti “sindaci taumaturghi” che stanno sprofondando nelle sabbie mobili dell’inconcludenza). Se è così, perché allora dovremmo ritirare ancora fuori questa ricetta che ha solo fatto avvizzire tante speranze?
La ragione è che forse adesso stiamo capendo dove si era sbagliato: nella scelta delle persone, che – tutto sommato – appartenevano per mentalità al circuito dello star-system; di conseguenza, con forti condizionamenti da parte del proprio milieu (e questo vale anche per il sindaco anti-establishment e antipersonaggio di Parma, sottoposto a pesanti tutele già al momento di costituire la propria squadra).
Dove – invece – Accorinti potrebbe essere realmente diverso, tanto da costituire un precedente importante? In quanto il suo fortissimo radicamento nel territorio (e il disinteresse ad evaderne) gli impone una sola priorità e un solo vincolo: quelli con gli elettori (difatti ha rifiutato ogni apparentamento, Grillo compreso). Insomma, è un felice esempio di politica locale presa davvero sul serio, non svilita a trampolino di lancio per velleità carrieristiche nazionali. Forte di un’idea di città che nasce dalla conoscenza condivisa dei problemi da portare a progetto democratico. Mentre – ora lo si può dire – i presunti sindaci dei cittadini, balzati sulla scena fino ad oggi, erano in prevalenza invenzioni mediatiche.
Se trarremo insegnamento dalla lezione, forse si potranno avere in futuro dieci, cento vicende alla messinese; dalla parte dei cittadini.