Nello stabilimento Burgo, 175 operai in cassintegrazione occupano da mesi la mensa. Il campione ex Inter e Juve, che tra pochi giorni festeggia i 70 anni, ha voluto ricordare il papà, morto per un male causato dalle esalazioni della fabbrica
La coincidenza temporale è ghiotta ma ci pensa lui stesso a spazzarla via: “Non sono qui per il mio compleanno, ma per ricordare mio padre”. Le candeline le spegnerà tra qualche giorno, il 13 novembre, con la moglie Ilda e i due figli. Saranno settanta per Roberto Boninsegna, leggenda del calcio per oltre tre generazioni, ospite ieri sera dei lavoratori dalla cartiera Burgo, di Mantova.
E in effetti in questa azienda c’è poco da festeggiare: 175 lavoratori in cassa integrazione da febbraio e speranze di riaprire ridotte al minimo. Colpa della crisi dell’editoria e dei giornali, dell’avanzata del digitale e del debito vertiginoso del gruppo, che oggi sfiora i 984 milioni di euro. Per oltre cent’anni da qui, 550 mila metri quadrati di stabilimento ai piedi del castello dei Gonzaga, è uscita la carta di tutti quotidiani e i settimanali d’Italia. Una potenza industriale famosa in tutta Europa, e oggi appesa a una trattativa con un imprenditore veneto, che però sembra non decollare.
E allora non resta che fare un viaggio nel tempo, intrecciando pallone e lavoro, gioie e dolori di un’Italia, che la mattina dopo la partita si è svegliata senza fabbriche e senza stipendio. “Mio papà Bruno ha lavorato qui come saldatore per 36 anni” racconta l’ex bomber neroazzurro. “Ritrovo un po’ di lui in questi ragazzi. Nelle loro rivendicazioni vedo quelle che faceva mio padre negli anni Cinquanta. Era un comunista, di quelli veri. Ma non mi ha impedito mai di andare a giocare nella squadra di parrocchia”. Bruno Boninsegna morì a 61 anni, sconfitto da un male causato dai fumi che respirava dentro lo stabilimento. “Allora lavoravano senza la maschera, solo con un fazzoletto, e per disintossicarsi dalle esalazione si beveva un litro e mezzo di latte”. Partiva da casa all’alba, in bicicletta, portando con sé la gamella, un recipiente con dentro il primo e il secondo. “Anche durante la guerra, perché i tedeschi usavano la cellulosa per fare l’esplosivo. A volte, nel tragitto, era costretto a gettarsi da una parte della strada per evitare le scariche di mitragliatrice dei soldati”.
Boninsegna parla davanti a una sala mensa affollata di persone di ogni età, appassionati di calcio e non. È questo il luogo simbolo della Burgo, e qui, da febbraio, passano le loro giornate i lavoratori in presidio permanente. Fuori dai cancelli le bandiere e gli striscioni consumati dai tanti cortei. Alle pareti foto e articoli di giornale che raccontano ascesa e declino dell’azienda. E sopra i fornelli un crocifisso, sistemato accanto all’immagine della falce e martello. “Erano lotte dure quelle di mio padre. Per lui ottenere le mascherina aveva lo stesso valore che per me aveva segnare un gol”.
da Il Fatto Quotidiano del 6 novembre 2013