L’anno scorso fui ripreso, credo con affetto, per il tipico atteggiamento di chi – superata una certa età – si guarda indietro e tutto gli sembra meglio. Ho letto in un libro (non ricordo il titolo e l’autore: come vedete sono già abbastanza rincoglionito) che in realtà non è il passato ad essere più bello del presente. Siamo noi che da giovani eravamo migliori. Ricordo con grande tenerezza le mie prime esperienze allo stadio. Avevo sei o sette anni quando mio padre mi portò per la prima volta a vedere una partita della Lazio all’Olimpico. Non so come abbia fatto Nick Horby ma ha centrato in pieno il momento in cui ti innamori perdutamente di una squadra e diventi tifoso. E’ il passaggio degli ultimi scalini che ti portano in curva. E’ la vista di quel rettangolo così verde che ti toglie il fiato. Sono le bandiere, i cori, il rito. Vivevo le mie settimane solo ed esclusivamente con la speranza che qualcuno tra mio padre e i miei zii mi portasse una volta ogni quindici giorni allo Stadio.Volevo arrivare ore prima. Non volevo perdermi nulla. Nessuna faccia, nessuna battuta, nessuna discussione sulle caratteristiche tecniche di giocatori per lo più dimenticati, su quale fosse la maglia più bella di sempre (qua siamo tutti concordi: quella con la scritta Seleco e l’aquila stilizzata).
Mia madre si alzava presto per friggere la frittata da mettere dentro i panini avvolti nella carta stagnola. Almeno tre mezzi pubblici e un’ora e venti di viaggio. La delusione di una sconfitta casalinga. La gioia di una vittoria. Ecco la mia domenica calcistica. Poi qualcosa è cambiato. Lo sappiamo tutti. E’ arrivata la politica in curva. Le violenti risse per “il controllo del territorio”. Non che prima non ci fossero liti o momenti di tensione. Non che qualcuno non volesse inneggiare a qualche duce. Ma era davvero un fenomeno raro. Si è tollerato l’intollerabile. Lo Stadio è diventata zona franca, dove non vige alcuna legge e alcuna legge va rispettata. Lasciamo a chi si occupa del fenomeno da anni di spiegarci quando e perché c’è stato questo cambiamento. Quando, cioè, le curve sono diventate zone di proselitismo politico. Il più becero, il più populista, il più ignorante.
Domenica, proprio durante la partita Lazio-Genoa, è stato esposto uno striscione che recitava: “Il tramonto rosso, l’alba dorata: Manolis e Yorgos presenti”. Era “un omaggio” a due giovani militanti del partito filo nazista greco uccisi durante un attentato. Non è il primo caso. Non sarà l’ultimo. Chi ha esposto lo striscione (nessuno giustifica un’esecuzione, sia chiaro) sapeva cosa si propone Alba Dorata? Probabilmente no. Almeno non tutti. Ma non importa. Quello che a me importa è che personalmente non ho nulla da spartire con questa gente. Per questo non andrò più allo stadio (mi spiace per mio figlio, che me lo chiede in continuazione). Perché mi sentirei partecipe e complice della stupidità di chiunque usi una partita di pallone come la sua riserva di caccia al fine di trovare proseliti pronti a essere utilizzati per i proprio fini. Perché non voglio condividere lo spazio con chi si fa così colpevolmente sfruttare. Perché, la verità, non è, come ho scritto nel titolo, che “non posso dirmi più tifoso”. Io tifoso lo sono sempre stato e lo sarò sempre. E’ questa gente che, tifosa, non lo è mai stata e mai lo sarà.