Giovane, bella…e doppia: se non si può essere seri a 17 anni, si può comunque fare sul serio. Chiedere alla diciassettenne Isabelle, figlia svogliata e prostituta (escort?) convinta sotto lo pseudonimo Lea. Domanda esibita, attualmente molto in voga anche a Roma, quartiere Parioli: lo fa per soldi, noia, desiderio sessuale o volontà di potenza? Anche qui non ci è dato sapere, eppure Isabelle/Lea sa staccarsi dalla cronaca spiccia, dalla mera istantanea del reale, come il film che la accoglie: Giovane e bella, diretto dal più ondivago ma ingiustamente sottovalutato dei registi francesi, François Ozon.
La concorrenza era spietata all’ultimo festival di Cannes, eppure Jeune et jolie (titolo originale) un premio l’avrebbe meritato, se non altro per la splendida protagonista Marine Vacht, una Laetitia Casta in magro ma con molto più peso scenico. Una Lolita illetterata, una forza carnale della natura, la sua Isabelle, di cui Ozon ci dice tutto in una inquadratura d’iniziazione: il suo primo ragazzo la sorprende sdraiata sulla spiaggia, con l’ombra della mano le accarezza il seno. Lei è luce, gli altri potranno continuare a toccarla, previo pagamento, ma rimarranno come quella mano: ombra. Satelliti.
Isabelle non la tieni, sotto il parka – già, non si prostituisce per iPhone, ricariche telefoniche e ammennicoli firmati come a Roma e L’Aquila – è una sex bomb, ai libri preferisce il letto, a due piazze: non è una nuova “Bella di giorno”, ma una bella di mezzogiorno, quando smonta dal liceo e monta in camera d’albergo. La clientela non le manca, e si capisce, ma Isabelle è pericolosa, la petite mort che promette può ingigantirsi. Ma la vera vittima del suo libero arbitrio non è una persona, bensì una classe sociale, meglio, la condizione dell’essere borghese, in primis quella della sua famiglia BoBo (bourgeois bohémien), tutta segreti, bugie e qualche cannetta. Già, da smascherare non è la sua doppia identità, piuttosto la doppiezza dei suoi “cari”, e Ozon lo fa con chirurgica precisione, senza parole al vento né fragorosi colpi di scena: le madri sfarfalleggiano, i patrigni hanno le intenzioni, se non le mani, lunghe, l’unico a salvarsi è il fratellino, che osserva muto e curioso la sua soeur fatale.
È quest’ultima la posizione etica di Ozon, il suo sguardo senza accenti gravi su una ragazza che troppo frettolosamente si taccerebbe di immoralità: invece no, Isabelle non è solo ars amandi, padroneggia l’arte rara di stare al mondo in armonia con se stessi, il proprio corpo, la propria testa. Il cuore? Chiedete troppo, lo stesso Ozon si astiene: né santa né puttana Lea, e il regista non subisce la fascinazione del peccato, non mette su un peep show voyeuristico (il sesso c’è: esplicito, non pornografico) e la liberazione sessuale post-sessantottina non rifinisce sullo stendardo. Giovane e bella: così è se vi pare, le domande hanno la meglio sulle risposte. Almeno quelle riguardanti Isabelle, perché non finisce qui: senza l’aureola da Giovanna d’Arco delle marchette, nondimeno Isabelle è la sintesi di un teorema antiborghese scostante e ambiguo, sottile e disturbante, che s’insinua dentro e non se ne va.
Le quattro stagioni di Isabelle e le quattro canzoni di François Hardy per mettere alla berlina la borghesia liberal, aperta e “trasgressiva” e poi cercare l’innocenza perduta nella braccia di Charlotte Rampling, una bella non più giovane. Film attualmente impossibile dalle nostre parti per misura, sguardo e raziocinio, ricorda ai salotti più o meno buoni qualcosa di scomodo: per vendersi ancora bisogna non essersi venduti del tutto. Sappiamo dalle cronache, la madre di Lea non è l’unica a non averlo capito: meglio, a far finta di non averlo capito. Vogliamo fare lo stesso? Da vedere, subito.
il Fatto Quotidiano, 7 Novembre 2013