Alle cinque del mattino l’Avana finalmente dorme, e fa perfino un po’ fresco. La Lada del taxista Hector tossisce e sferraglia nel buio fino alle luci gialle dell’aeroporto Jose Marti. E’ il nostro addio alla chetichella alle Americhe. A Panama fatti i visti per Cuba avevamo deciso di volare a Tokyo per poi scendere rapidamente lungo il Giappone fino a Fukuoka. Qui partono i traghetti per Busan, il porto coreano dove attorno al 20 novembre dovrebbe fare scalo il cargo con la Rabmobile. Nonostante le rassicurazioni di Pedro siamo alquanto scettici sulla presenza dell’auto, ma Pietro vuole vederci chiaro e stavolta non vuole mancare l’appuntamento.

nanni1La parabolona, l’Havana-Tokyo con scalo a Toronto grazie ai prezzi imbattibili di Canadian Airways, comincia all’alba di lunedì e si conclude martedì pomeriggio: 36 ore di giorno perenne. Ma seppure più intronati del solito dalla tirata contromano esordiamo alla grande. Giusto il tempo di salutare la folla di fan e concedere un’intervista alla Tv, ed ecco che Pietro scopre che il suo prezioso trolley è rimasto a Toronto. E’ il dramma, considerato che a Tokyo ci sono 15 gradi in meno che all’Avana. Ma subito abbiamo una prova della la proverbiale efficienza giapponese; un’hostess in alta uniforme si materializza dal nulla, si inchina, ci prende in consegna tra mille arigatou (“Grazie”, la prima parola che si impara in Giappone, quasi sempre anche l’ultima). Quando scopre che non abbiamo la minima conoscenza della capitale, che non abbiamo prenotato alcun albergo, né sappiamo quanto resteremo, non fa una piega. Ci scorta personalmente all’ufficio accoglienza turisti e non ci abbandona finché non troviamo un hotel alla portata del nostro modesto budget. Ottenuto l’indirizzo, si inchina e scompare nel nulla così come era apparsa, in una nuvola di arigatou.

Se volevamo un taglio netto per dividere il nostro viaggio in due, come se il mondo fosse un cocomero, beh, ci siamo riusciti. Cuba era il passato, metà leggenda e metà condanna. Ora il Giappone ci viene incontro suadente ma indecifrabile come il futuro. L’indomani, nell’attesa del ritrovamento del trolley, noleggiamo due biciclette – il futuro si affronta meglio in bicicletta- e maciniamo chilometri sugli enormi marciapiedi dove i velocipedi hanno potere di via o di morte. Strade lunghe e lisce, mai una piazza, trafficate eppure incredibilmente silenziose, le lussuose macchine giapponesi non fanno rumore, figuriamoci i passanti. Tutto sembra programmato da un software invisibile. Si pedala così bene, e in un pomeriggio autunnale così dolce, che non abbiamo idea di dove siamo finiti. Come ha raccontato Sophia Coppola in Lost in translation, Tokyo è il luogo ideale per smarrirsi. Il film con Scarlett Johansson e Bill Murray racconta lo smarrimento esistenziale; noi, più modestamente, abbiamo smarrito il trolley, e in più ora non riusciamo a ritrovare la strada del nostro hotel. Chiediamo aiuto, ma a chi? A Cuba era impossibile essere soli, improponibile passare inosservati, inevitabile essere riconosciuti. In Giappone siamo diventati invisibili. Impossibile non essere soli, e gli indigeni sono i primi a dare l’esempio, testa bassa e passo veloce. L’hotel non si trova. Fermiamo una passante per chiedere indicazioni; all’inizio si stupisce, poi la gentilezza nipponica prevale, ma la signora non conosce l’alfabeto latino, non parla l’inglese. Osserva la mappa perplessa, come se vedesse Tokyo per la prima volta, chiede a sua volta aiuto a un altro passante, si apre un piccolo talk show stradale. Arigatou, arigatou! Alla fine non si è capito da che parte andare, e non siamo nemmeno più sicuri di dove ci troviamo. A modo suo, anche il Giappone è avventuroso.

nanni33Cala la notte, le insegne verticali illuminate danno il colpo di grazia al nostro barcollante senso di orientamento. I vigili urbani si inchinano, ma nemmeno loro intendono l’inglese. Tutti soli, molti si infilano in enormi sale giochi dove si paga per giocare alle slot machine ma non si vince niente, se non la possibilità di giocare ancora. E’ vero che al gioco si perde, ma qui non è proprio contemplata la possibilità di vincere. I giapponesi amano le certezze. E se proprio si vuole la compagnia, bisogna pagarla. Le vie si sono riempite di un numero impressionante di lolite vestite come le ragazze di Non è la Rai (come la Coppola, anche Boncompagni deve essersi ispirato al Giappone) che ammiccano dalle soglie illuminate a giorno dei palazzi più sontuosi: club e girls bar dove vediamo entrare frotte di impiegati in giacca e cravatta (foto 4). Perfino i buttadentro ci ignorano, in quanto occidentali, ma noi chiediamo delucidazioni. Si offre da bere alle lolite, si chiacchiera, si ride, si canta il karaoke e si torna a casa. Pagare per cantare il karaoke? Beate le cubanite, che sognano ancora il principe azzurro. Queste deliziosegirls con gli occhi a mandorla sognano clienti e il sogno si avvera, li raccolgono con il rastrello.

A forza di pedalare, oltre l’ennesima succursale di Non è la Rai, ci sembra di riconoscere un ideogramma familiare. Ma sì, è insegna del nostro albergo. Chissà se nel futuro sarà così difficile ritrovare la strada di casa, e rivedere il proprio trolley.

(21-continua)

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