Alle cinque del mattino l’Avana finalmente dorme, e fa perfino un po’ fresco. La Lada del taxista Hector tossisce e sferraglia nel buio fino alle luci gialle dell’aeroporto Jose Marti. E’ il nostro addio alla chetichella alle Americhe. A Panama fatti i visti per Cuba avevamo deciso di volare a Tokyo per poi scendere rapidamente lungo il Giappone fino a Fukuoka. Qui partono i traghetti per Busan, il porto coreano dove attorno al 20 novembre dovrebbe fare scalo il cargo con la Rabmobile. Nonostante le rassicurazioni di Pedro siamo alquanto scettici sulla presenza dell’auto, ma Pietro vuole vederci chiaro e stavolta non vuole mancare l’appuntamento.
Se volevamo un taglio netto per dividere il nostro viaggio in due, come se il mondo fosse un cocomero, beh, ci siamo riusciti. Cuba era il passato, metà leggenda e metà condanna. Ora il Giappone ci viene incontro suadente ma indecifrabile come il futuro. L’indomani, nell’attesa del ritrovamento del trolley, noleggiamo due biciclette – il futuro si affronta meglio in bicicletta- e maciniamo chilometri sugli enormi marciapiedi dove i velocipedi hanno potere di via o di morte. Strade lunghe e lisce, mai una piazza, trafficate eppure incredibilmente silenziose, le lussuose macchine giapponesi non fanno rumore, figuriamoci i passanti. Tutto sembra programmato da un software invisibile. Si pedala così bene, e in un pomeriggio autunnale così dolce, che non abbiamo idea di dove siamo finiti. Come ha raccontato Sophia Coppola in Lost in translation, Tokyo è il luogo ideale per smarrirsi. Il film con Scarlett Johansson e Bill Murray racconta lo smarrimento esistenziale; noi, più modestamente, abbiamo smarrito il trolley, e in più ora non riusciamo a ritrovare la strada del nostro hotel. Chiediamo aiuto, ma a chi? A Cuba era impossibile essere soli, improponibile passare inosservati, inevitabile essere riconosciuti. In Giappone siamo diventati invisibili. Impossibile non essere soli, e gli indigeni sono i primi a dare l’esempio, testa bassa e passo veloce. L’hotel non si trova. Fermiamo una passante per chiedere indicazioni; all’inizio si stupisce, poi la gentilezza nipponica prevale, ma la signora non conosce l’alfabeto latino, non parla l’inglese. Osserva la mappa perplessa, come se vedesse Tokyo per la prima volta, chiede a sua volta aiuto a un altro passante, si apre un piccolo talk show stradale. Arigatou, arigatou! Alla fine non si è capito da che parte andare, e non siamo nemmeno più sicuri di dove ci troviamo. A modo suo, anche il Giappone è avventuroso.
A forza di pedalare, oltre l’ennesima succursale di Non è la Rai, ci sembra di riconoscere un ideogramma familiare. Ma sì, è insegna del nostro albergo. Chissà se nel futuro sarà così difficile ritrovare la strada di casa, e rivedere il proprio trolley.
(21-continua)