“È proprio lei, Matteo Saradini, il regista?”, chiede sorpresa la proprietaria di una casa a Washington che lui aveva chiamato con l’idea di lasciare il Canada per gli Stati Uniti. In sette anni, Matteo, 32 anni, è riuscito ad entrare nel mondo del cinema in America e diventare una piccola star. Una cosa che nel suo Paese non si sarebbe neanche sognato. Nel 2010, in meno di un’ora, ha dato vita alla sua casa di produzione: Red harvest pictures. È stato sufficiente inserire i dati personali in un modulo online, pagare una tassa di pochi dollari e trovare un collaboratore di cui fidarsi, Domenico Cutrupi. Capitale di partenza: 35mila dollari, che ha messo da parte nel corso degli anni. Da allora ha girato decine di videoclip musicali e una serie di backstage di film: Eureka e Psych (due serie tv), Planet of the apes, Sucker punch, Man of steel.
La prima storia di cui è stato regista è la sua. La pellicola si riavvolge indietro fino al 2004. Matteo vive a Brescia e si laurea al Dams. Alle spalle nessuno stage. Di sua iniziativa gira alcune scene che diventano un film gangster fai da te. Poi incontra Antonio Russo Merenda, un produttore italiano che si afferma in Svezia, per il quale realizza un documentario sulla fabbrica di armi Beretta che va in onda su un canale nazionale svedese. Quindi si sposta a Roma. È passato un anno, quanto basta per portarsi a casa due delusioni di fila: “Per due volte due aziende mi hanno assunto per montare filmati nel settore medico – spiega Matteo-. Poi sono fallite. Risultato: le ho servite gratis e in cambio non avevo più un futuro”.
La scelta di lasciare l’Italia per sbarcare il lunario oltreoceano arriva alla svelta. Nel 2006 vola a Los Angeles. Il posto lo trova subito: si occupa di post produzione e montaggio di documentari. Nel tempo libero fa il pizzaiolo e dà lezioni di italiano. Tempo di permanenza: cinque mesi. E poi? “Me ne sono andato a Vancouver, lì mi avrebbero dato sei mesi di soggiorno se avessi trovato un lavoro”. Di contatti utili laggiù non ne ha. Spedisce il curriculum a tutti gli studi cinematografici in zona. Tempo una settimana e, grazie ad alcuni service esterni, si trova dietro la telecamera per girare e montare le scene di Smallville, 300, Watchmen e altri film dello stesso successo. Riesce a mettersi in tasca duemila dollari al mese. Non perde mai di vista il suo sogno, quello di fare il regista, e nel 2008 molla quello che fa per un lavoro di maggiore prestigio: diventa responsabile camera e supervisore di post produzione per la casa di produzione Image Pacific. In due anni, dal 2009 al 2010, mette a punto due cortometraggi che finiscono al Festival di Cannes.
Matteo non si ferma. Continua a non tornare in Italia e l’Italia continua a non accorgersi di lui. Poco importa. “Se hai un’idea, qui trovi sempre uno spazio”. Si mette alla prova con una web serie di fantascienza, Residenz, interattiva: il pubblico, cioè, può scegliere il finale di ogni puntata tra due diverse opzioni. Il primo episodio ha conquistato oltre un milione e 500 click su YouTube. Ce ne sono altri quattro pronti. I progetti sono tanti. In questi mesi è alle prese col trailer di un nuovo film, tutto suo. American double, genere drammatico, una storia tra Italia e Stati Uniti, in uscita nella seconda metà del 2014. Della trama, però, non vuole anticiparci nulla. “Sto negoziando il budget con diversi finanziatori interessati al progetto – dice Matteo-, ipotizzo un costo preventivo di un milione e mezzo di dollari”.
Aiutante dell’impresa l’amico italocanadese Kristian Messere, e uno degli attori della serie è Jeremiah Bitsui, che ha recitato anche in Breaking bad. Ora sono impegnati nel casting. Ce ne sarebbe abbastanza. Ma il giovane regista sbarcato dall’Italia, in cantiere ha già altri cinque film: “Un western, un horror, una commedia e un paio di drammi” spiega. Nel continente del “detto, fatto” le sue idee diventano realtà senza nemmeno rendersene conto. “Ho saputo che un gruppo di registi italiani è emigrato in Cile – continua Matteo – per aprire una casa di produzione”, racconta. Lui non ci ha pensato su due volte: li ha contattati e insieme stanno già lavorando a un film horror. “Anche loro erano stufi, come me, di scontrarsi ogni volta con ambienti di lavoro dove a decidere la carriera delle persone era il politico di turno e il talento non contava”.
Matteo lo dice con l’amaro in bocca ma l’Italia, non c’è dubbio, gli manca. Per due motivi. “Qui farsi gli amici è difficilissimo. Finito il lavoro ognuno sta per i fatti suoi. Mi manca casa mia, famiglia e amici di una vita” confida. E poi? “Ammetto che sul piano professionale devo tutto all’America. Ma ho fatto tesoro più dai loro errori che altro”. Cioè? “Qui il business è il motore di tutto: in poco tempo devono girare più scene possibili a costo di rinunciare alla qualità e fare pressioni psicologiche sugli attori, che magari avrebbero bisogno di più attenzione”. C’è dell’altro? “Le trame dei film americani sono ripetitive: portano il pubblico ad evadere dai problemi, come la povertà e la diffusione delle armi. Per me, al contrario, un film deve sempre trasmettere un messaggio di denuncia sociale e il cinema diventare una grande coscienza collettiva”. Kubrik è il suo mito. Assumere nuovi assistenti e lavorare con l’Italia, la sua aspirazione.