Sulla metropolitana di una grande città m’è capitato, recentemente, di assistere a una scena così familiare e al contempo inedita da sbalordirmi. Un giovanotto malmesso ma dignitoso aspetta la chiusura delle porte. Tiene gli occhi bassi. Il convoglio si muove e lui estrae un malconcio bicchierino, gli restituisce forma e finalmente parla. Parole ormai trite, sulla metro. Lamenta la crisi. Chiede un aiuto. Parla di figli e di lavoro che non c’è. Alza la voce per superare lo sferragliare lì intorno. Insomma, tutto già visto. Qualcosa però stona e sorprende. Il ragazzo non parla di soldi per comprare, per acquistare cibo, scarpe o vestiti. No, dice che chiede un aiuto perché desidera, se non altro (dice proprio così: se non altro), tenere insieme e unita la famiglia. Non parla di bisogni materiali e stringenti. Parla di desideri più alti, emotivi. E infatti emoziona e riscuote un successo. Commuove. Si frugano tasche e borsette e le monete migrano. Avrà inventato? Avrà recitato? Non lo so. Se l’ha fatto, è stato bravo, sottile. Però non conta, non al fine di quel che vorrei dire.
Credo che il desiderio sia l’unico padre rimastoci per il futuro. Da troppo siamo in balia di necessità da consumare nell’immediato, da bruciare in tempo reale. Siamo ostaggi di un’assenza di prospettiva, di pensiero a lungo termine, quello paziente e stratificato. Lo scopo della nostra esistenza è giungere in fretta e furia al soddisfacimento del bisogno di turno (reale o indotto, poco importa) perché ogni bisogno prende il nome di un consumo e il consumo è qui e ora, non domani. Consumare per esistere e valere, perché solo chi consuma è visibile e vale. Ci siamo inventati modelli nuovi e modelli ancor più nuovi, ogni prodotto diventa obsoleto già solo uscendo dal negozio. Il desiderio si è estinto. Lo conferma anche il Censis, nel suo 44° Rapporto sulla situazione sociale del Paese, quando ci ricorda come “la strategia del rinforzo continuato dell’offerta sia uno strumento invincibile nel non dare spazio ai desideri”, tanto che all’inconscio manca, oggi, la materia prima su cui lavorare: il desiderio. Per l’appunto. Anche il tempo è morto, assassinato. Sembra che tutti siamo immersi in un presente indistinto, perpetuo, dove non c’è spazio né per la memoria (il passato) né per il progetto (il futuro). Il bisogno si fa impellente, improcrastinabile. In un certo senso, possiamo dire che questa rincorsa al bisogno, come forma di autorealizzazione, ha ucciso il desiderio a tutto vantaggio dell’ansia.
Contribuendo a ridimensionare la mia ignoranza, l’amico Michele Marmo, filosofo levinassiano, mi ha illustrato per primo come ci sia un abisso sostanziale tra il desiderio e il bisogno. Mi ha fatto comprendere (e in questo ci si è messo anche Massimo Recalcati, quando ripropone la struggente figura dei desiderantes di cui narrava Giulio Cesare) quanto il termine desiderio, etimologicamente, richiami lo sforzo dell’uomo nel ricercare la via, scrutando il cielo e le stelle (infatti: de-sidera, privazione delle stelle, della loro vista). Ritrovarsi, perciò. Rallentare. Ho la sensazione che siamo di fronte a una preziosa occasione per svoltare e per svoltare, di solito, si rallenta. E se la crisi, questa terribile crisi, servisse se non altro a farci tirare il fiato? Se ci mettesse nella condizione, finalmente, di tornare a riprendere un contatto con noi stessi, coi nostri desideri? Potremmo riscoprire cosa significhi davvero scegliere, ascoltare quel che desideriamo, prevedere le tappe per realizzare sogni e ambizioni, regalando loro tempo. Potremmo scorgere la proiezione dell’oggetto nel tempo, riscoprire il valore della pazienza, quella che vive nello sguardo del contadino che sa vedere il grano nello stelo e poi nella spiga ancora verde. Il desiderio vince l’anonimato, ci esalta come persone districandoci dalla massa. Se desideri sei riconoscibile e puoi riconoscerti nei desideri degli altri. Il desiderio si fa collettivo e può diventare progetto di un popolo. Sì, desidero che si impari, di nuovo, a ricollocare l’uomo nell’umanissima dimensione del tempo. E per far ciò sono dispostissimo a concedere tempo all’uomo, perché il futuro si nutra di desiderio, perché si affermi come dimensione che orienta il cammino verso una meta, ritrovando le stelle, in continuità col prima e nella prospettiva del dopo. Di nuovo non posso che citare il Rapporto del Censis, quando ci dice che “tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare la dinamica di una società troppo appagata e appiattita”.