Io li vedo tutti i giorni, gli italiani di Londra. Ma qualcuno di voi li avrà visti solo a Servizio Pubblico, giovedì sera. Quelli erano soprattutto giovani, ma gli Italians of London sono ormai mezzo milione. Una crescita vertiginosa. Un fenomeno preoccupante: o almeno, io se fossi un dirigente italiano mi preoccuperei di una diaspora del genere. Invece il ministro Saccomanni è venuto a Londra a raccontare alla City che siamo un paese serio, non faremo default, ma non possiamo fare riforme e in sostanza non cambierà nulla. Tant’è che il governo, invece che far rientrare i suoi giovani, ha “deciso di aiutarli a trovare lavoro qua, dove il mercato del lavoro è più fluido e le opportunità maggiori”. Parole di ministro. Abbastanza incredibili, ma è così che ragionano i nostri politici. Però siamo di fronte a una vera fuga, negli ultimi 18 mesi sono sbarcate ufficialmente sull’isola 90mila persone.
In tanti si sono registrati all’Aire (Anagrafe Italiani Residenti all’Estero): triplicateli, e avrete il numero reale di quanti, giovani e meno, studenti e professionisti, lavoratori e ricercatori, hanno fatto la valigia in cerca di un futuro migliore. Perché questa è la realtà. Sono in fuga da un paese in crisi, dove scarseggia il lavoro, ma soprattutto manca una visione del futuro, una prospettiva e una chance. Quindi, mentre li sentivo parlare, a Servizio Pubblico ho pensato che il titolo del libro di Barbara Serra, in uscita in questi giorni, è proprio azzeccato: Gli italiani non sono pigri (Garzanti, pagg. 196, euro 14.90). Questo è uno degli stereotipi che ci accompagnano all’estero: gli italiani lavorano meno, vogliamo fare la pausa pranzo e la pennichella, siamo mammoni e non abbiamo quelle “palle di ferro” di cui si vanta il nostro presidente del Consiglio.
Ma Barbara Serra, giornalista di punta di Al Jazeera e volto noto anche in Italia, è una che vive all’estero da 30 anni. È una che ti dice: ho avuto fortuna che i miei si siano trasferiti quando avevo otto anni. Se rimanevo in Italia passavo le giornate guardando Rai1 e avrei pensato che per far carriera dovevo sculettare in tv, invece che sgobbare sodo, studiare, fare i turni di notte, per arrivare dove sono arrivata.
Il libro è pieno di confronti tra mentalità e spunti interessanti (sulla famiglia, il fallire e il ripartire, la costanza nel lavoro), ma due cose soprattutto mi hanno colpito. Che poi sono le stesse che trapelavano dalle parole dei ragazzi a Servizio Pubblico.
La prima: gli italiani lavorano più degli altri. Allora perché siamo considerati dei fannulloni? Perché l’Europa ha paura di noi? Perché il nostro sistema non è efficiente e grandi sforzi vanno sprecati. Parliamo troppo e non andiamo dritti al punto, come per esempio gli inglesi (l’email di un inglese è di due righe, quella di un italiano di 20). Oppure abbiamo priorità sbagliate: ci alziamo durante una riunione se arriva la telefonata di una persona più importante. Il che denota come funziona la macchina e cioè conta più mantenere buone relazioni che portare a casa il risultato.
La seconda: la meritocrazia come antitesi a nepotismo, raccomandazioni e familismo amorale. Ma meritocrazia vuol dire selezione, competizione e ambizione. E la retorica buonista italiana invece non le nomina mai. Vogliamo il merito? Sappiate che uno su mille ce la farà, gli altri no. Quei ragazzi di Servizio Pubblico invece si sono messi in gioco. Hanno fatto la valigia – a malincuore come tutti gli emigranti – e per usare le parole di Barbara Serra “è un gravissimo peccato che tanti giovani sentano il bisogno di andare all’estero per realizzarsi”.
Statene certi: una volta a Londra, nessuno li accusa più di essere pigri. Il vero disastro è che una volta qua, non hanno più voglia di tornare indietro. “Tanto l’Italia non cambierà mai, dicono”.
Twitter: @caterinasoffici
il Fatto Quotidiano, 9 Novembre 2013