Alla rassegna "Cinéma et Migrations"di Agadir le storie dei "viaggi della speranza" e delle difficoltà che si incontrano nei paesi europei. In "La Pirogue" (Senegal) metà dei protagonisti muoiono prima di arrivare alla meta. Il regista Toure: "Lo dedico ai giovani africani, la nostra ricchezza". Tra il pubblico, gli imprenditori italiani che hanno fatto il viaggio contrario
C’è un festival del cinema ad Agadir, nel sud del Marocco, di cui noi, noi occidentali, poco o nulla sappiamo. Chiariamolo subito, non ne sappiamo nulla e nessuno ci tiene a farcene sapere nulla, perché è un festival per “loro”, per gli africani, per quelli che partono ogni giorno diretti alle nostre coste, alla nostra Europa. E’ il Festival Cinéma et migrations. Dieci anni che il Festival c’è, dieci anni che non tradisce il suo scopo primo: raccontare ai migranti, come abbiamo imparato anche noi italiani da pochissimo a chiamarli, che la terra promessa Europa non esiste, anzi che il Vecchio Continente fa abbastanza schifo, che, ammesso che si riesca a non annegare in mare, si arriva in Paesi che discriminano chi arriva e che discrimineranno anche i figli di chi arriva, almeno fino alla seconda generazione, troppo presto per dire della terza, ma le premesse non sono granché.
“Mica partono i poveracci – spiega Mohamed Charef, Presidente della Commissione regionale dei diritti dell’Uomo di Agadir – partono quelli che cercano opportunità, quelli che escono dall’università e che vogliono giocarsela in paesi dove vale la meritocrazia, dove vale la pena far crescere i propri figli. Certo poi ci sono le emergenze umanitarie – continua – ma sono altra cosa dal flusso migratorio”. Lo dice nel dibattito, aperto a stampa e non solo, quello che segue ogni film o cartone animato: un confronto che con le pellicole sembra centrare poco perché ha il sapore del dibattito politico e i registi rispondono a domande senza sconti, argomentando ogni contenuto.
“Non crede con la sua pellicola, di aver sposato e dato sponda a tutti i luoghi comuni europei sugli arabi?”, chiede cruda una donna, una delle poche con hijab (il foulard con cui le donne musulmane si coprono capelli e collo), a Philippe Faucon, che qui accompagna il suo La Désintégration, che racconta di un giovane francese, figlio di marocchini immigrati, il quale, visti sfumati tutti i sogni di ascesa sociale e affermazione di sé, diventa un kamikaze della jihad islamica. “Affatto – ribatte il regista – racconto una storia verosimile, dove è chiaro che l’estremismo religioso attecchisce facendo leva sulla discriminazione, che c’è, sull’assenza dello stato francese, che è un fatto, sull’inadeguatezza e il fallimento dell’istituto familiare, che è evidente. Ma il film racconta anche come il reclutatore terrorista mischi sapientemente precetti coranici a falsità che con l’islam non hanno nulla a che fare”. Una frase che dirla qui, in un paese arabo, non è proprio una passeggiata. Ci vuole coraggio e orgoglio.
E l’orgoglio, l’orgoglio migrante, è un’altra parola d’ordine al Festival. “Dedico La Pirogue (qui il trailler) ai giovani africani, sono il 60% della nostra popolazione, sono la nostra vera ricchezza”, tuona Moussa Toure, che per un’ora e mezza porta il pubblico in sala su una barchetta di legno che parte dal Senegal con una trentina di migranti diretti in Europa. Metà ne moriranno, “come è successo a circa 5mila migranti sui 30mila africani dell’ovest del nostro continente che tra il 2005 e il 2010 hanno tentato la sorte in questi disperati viaggi della speranza”, dice il regista. Gli altri, salvati dalla Croce Rossa spagnola, si vedranno rispediti a casa con un volo di rimpatrio forzato, come dettato dalle leggi nostrane antimigratorie. “I viaggi della speranza. I morti nel deserto o in mare. È questione di diritti umani. Punto”, taglia corto José María Román, Direttore generale della fondazione cittadini e valori Funciva di Madrid. “Ma Lampedusa ha scosso le coscienze dell’Europa”.
E L’Italia? Spicca per la sua assenza. Lampedusa, la strage di Lampedusa, è la sola “nostra” presenza al Festival. Nelle scorse edizioni qualcosa di nostrano è passato sul grande schermo. Quest’anno nulla di artistico. Solo la cronaca, la cronaca nera. Beh certo, italiani ce ne sono nelle ambite feste organizzate nei più grandi alberghi di Agadir in occasione del Festival, ma sono infiltrati, sono per lo più costruttori edili, imprenditori che dicono che il nostro Paese è morto e che qui si lavora e c’è prospettiva. Dal Marocco se ne sono andati in quattro milioni, il 10% della popolazione, in cerca di fortuna in Europa, qui ad Agadir, a Tangeri, a Marrakech migrano gli italiani in cerca di fortuna.
Guarda come gira il mondo. Tutto quel che riguarda il Festival è preso d’assalto dal pubblico. Sullo schermo, come in sala o alle feste ci sono le star del cinema. Foto, autografi. L’arrivo di Rachid El Ouali, il Nanni Moretti di Casablanca, mette a dura prova il servizio d’ordine. Nella sua Ymma, si ride e molto, a volte amaro. Sono le vicende del protagonista, creativo pubblicitario marocchino, che finisce in Corsica alla ricerca di un amore da chat e gliene capitano di tutti i colori. Picchiato, rapinato, altro che il sicuro e rassicurante Marocco. Alla fine della pellicola vien da dire, parafrasando Asterix e Obelix: “Sono pazzi questi Europei”.
di William Beccaro e Maurizio Pluda