Il caso del Sergente A., in attesa della sentenza prevista per il 6 dicembre, spacca l'opinione pubblica britannica e il partito conservatore. Il premier Cameron: "Non possiamo mettere a repentaglio l’immagine dei marines per questa vicenda"
Un talebano ucciso in Afghanistan con un’arma da fuoco, un militare britannico ritenuto colpevole della sua morte e un intero apparato militare che, insieme alla politica, ora ragiona su quali siano le giuste punizioni per quei soldati “che sbagliano”. Il Regno Unito mette in discussione un intero sistema di valori davanti al caso del “Sergente A.”, che una corte marziale ha ritenuto essere l’esecutore materiale della morte di un prigioniero di guerra nel 2011, nella provincia di Helmand, nel Paese asiatico. La sentenza, che è prevista per il prossimo 6 dicembre, potrebbe essere molto pesante. Il sergente, che è il primo soldato britannico in Afghanistan a essere ritenuto colpevole della morte di qualcuno, rischia persino l’ergastolo. E ora, di fronte al caso del militare – ritenuto colpevole grazie ad alcuni video ritrovati su un computer e girati dalle telecamere dei royal marines – è l’intera politica a intervenire.
Il primo ministro David Cameron ha definito la vicenda “sconcertante”, ma, allo stesso tempo, ha ricordato “il grande servizio svolto da questo corpo militare. Non possiamo mettere a repentaglio l’immagine dei marines per questa vicenda”, ha aggiunto il premier. Ma il partito conservatore, chiamato in queste ore a dare un parere politico sulla questione, si è comunque spaccato tra chi difende il sergente e chi vorrebbe la massima pena. Come Julian Lewis, parlamentare dei Tory per New Forest East: “Nessuna clemenza – ha detto – essere troppo morbidi metterebbe a repentaglio la vita dei nostri militari, che potrebbero essere presi in ostaggio ed essere maltrattati per ritorsione. Siamo di fronte a un’atrocità ma anche a un tradimento del personale militare britannico, che potrebbe essere messo a rischio dal comportamento di guerra di persone che già agiscono al di fuori di ogni legge o convenzione”.
Anche tra i militari il dibattito è ampio. Tanti gli appelli che invocano clemenza per il Sergente A. E molti altri militari ora dicono che “la sentenza dovrebbe tenere conto delle straordinarie pressioni a cui il nostro personale è sottoposto nella zona di Helmand”. Come il generale Julian Thompson che, intervistato dalla radio della Bbc, ha detto che “una sentenza addolcita sarebbe appropriata. Le pressioni verso questi uomini sono veramente enormi e più combattono e più sono sottoposti a stress”. Così, allo stesso modo, sempre alla Bbc il colonnello Mike Dewar ha detto che “la società dovrebbe fare eccezioni per alcuni soldati in alcune circostanze straordinarie”.
La presenza britannica in Afghanistan, intanto, rimane indiscussa. Anche la politica va avanti e pochi giorni fa Cameron ha incontrato il presidente afghano Karzai a Downing Street. La missione in quella parte di Asia continua a essere monitorata da periodici rapporti del ministero degli Esteri. Per quanto riguarda la triste conta dei morti e dei feriti, dal 2001 alla fine di settembre 2013, ben 444 britannici, fra militari e civili, sono rimasti uccisi, di cui 350 in azione. I feriti gravi sono stati 607. Difficile, invece, fare la conta dei cittadini o dei combattenti afghani rimasti uccisi nelle missioni, dal 2001 a oggi. Alcune stime, fatte dalla sintesi fra dati dell’Onu e di altre organizzazioni indipendenti come la Afghan Independent Human Rights Commission, indicano in più di 35mila il numero dei morti.