In qualche modo sarà come averlo ancora lì, sul palco, a cantare le canzoni di Matteo Salvatore. Perché quando venerdì 15 e sabato 16 novembre, all’Arena del Sole di Bologna, Moni Ovadia porterà in scena “Prapatapumpa, padrone mio ti voglio arricchire”, nei panni del bardo cantastorie, sarà difficile non ripensare a Lucio Dalla. Che nel 2012, al Petruzzelli di Bari, con Ovadia e con altri artisti interpretò quegli stessi brani che scandiranno, a teatro, la vita e le vicissitudini di uno dei padri della musica del Sud. ‘Zicozico’, com’era soprannominato. Da Le chiacchere de lu paese a Pasta nera, da La notte è bella e La cometa, a Padrone mio. Matteo Salvatore, morto nel 2005 a 80 anni “dopo averne viste, fatte, subite, musicate, urlate di tutte”, del resto, era amato da entrambi: dal bolognese Lucio e dal bulgaro – milanese Ovadia. E proprio grazie all’artista garganico i due si erano conosciuti nel settembre del 2011, in Puglia. In qualche modo, quindi, “lo spettacolo omaggerà entrambi i cantautori – spiega Moni Ovadia – due compagni di avventure che non ci sono più eppure, per lui e per tanti, ci saranno sempre. Una massima chassidica racconta che Dio ha creato l’uomo perché ama ascoltare storie. Finché sapremo narrare noi stessi e le nostre storie, noi sapremo cambiare il mondo”. 

Prapatapumpa si è quindi ispirato a “Il Bene mio. La vita e le canzoni di Matteo Salvatore” cantato insieme a Dalla, nel raccontare di Apricena, terra natale del cantautore pugliese, nel pieno del ventennio fascista, quando c’era il sole alto della controra, le case erano bianche e l’aria sporcata da sciami di mosche. “Il padre è facchino quando può, la mamma chiede l’elemosina nei vicini paesi. Matteo insieme a fratelli e compagni di strada vive e gioca scalzo nella piazza. Non ci sono orari da rispettare per il pranzo e la cena, perché non c’è niente da mangiare”.

L’Apricena che segna l’inizio del lungo viaggio di Salvatore e dello spettacolo che Ovadia porterà sul palco dell’Arena del Sole. Di canzone in canzone sarà la sua voce da bardo yiddish a ripercorrere il viale dei ricordi, attraverso gli anni spesi a suonare serenate per raccogliere spiccioli e a soffiare nel corno per annunciare che la carne della macelleria di Pasquale Camicialonga è buona, per poi partire alla volta di Roma Capitale. Nuova dimora ma mai musa ispiratrice per le ballate del cantastorie pugliese.

“Li nelle cave di valle Aurelia Matteo Salvatore trova lavoro e casa in una baracca. Una donna del suo paese lo convince a cantare nelle trattorie romane, gli compra una chitarra, dei nuovi pantaloni e gli augura buona fortuna. E arriva la fortuna: naturalmente arriva di sera. In una di queste trattorie incontra Claudio Villa. Canta al suo tavolo le canzoni di Roberto Murolo ma il reuccio si accorge che Matteo non è napoletano. Lo convince a cantare in pugliese, negli stessi anni in cui Domenico Modugno canta in siciliano. Scatta la sua creatività. Decide di comporre testi e musiche, ballate che nascono dal ricordo”. Padrone mio ti voglio arricchire, per esempio, brano che dà anche il titolo allo spettacolo. Canzoni che secondo Lucio erano “impregnate dell’anima del Sud” composte da un uomo che era “un’autentica bandiera sociale per il modo in cui ha condotto la propria esistenza. Un’artista – spiegava Dalla – che ha conferito alla sua musica una forte funzione provocatoria e di denuncia”.

Negli anni successivi, infatti, Salvatore raggiungerà il successo, la fama, “il denaro”, “era la prima volta che si sentiva cantare in dialetto pugliese alla radio”. Fino al 1973, quando l’accusa per l’omicidio di Adriana Doriani non gli precluse dalla possibilità di esibirsi sulla Rai. Renzo Arbore, allora, gli consigliò di farsi vedere “giù ai bar della strada, salutare i dirigenti e non chiedere di lavorare. Il tempo o forse i tempi – racconta la biografia del cantautore, intitolata ‘La luna aggira il mondo e voi dormite’ – addolciranno i rigori di una Rai fortemente clericale. Gli anni ’80 sono anni difficili per la musica d’impegno. Matteo Salvatore non fa concerti pubblici, non c’è richiesta”.

Tuttavia fu proprio la sua biografia a restituire celebrità a un nome che sarebbe entrato nella storia della musica italiana: premi, concerti, fino all’incontro con Vinicio Capossela, e alla serata intitolata “Chi tiene polvere spara” del 9 luglio del 2004, al Parco della Pellerina di Torino. Dinanzi a 25.000 spettatori. Da allora non smise più di esibirsi, voleva cantare “sino alla fine come Modugno”, diceva. Matteo Salvatore, ricorda Ovadia, “ti alzava la cotenna del cranio” e per questo lui e Lucio vollero omaggiarlo con uno spettacolo. Dovevano replicare, anche, Dalla gli aveva scritto “appena torno da Sanremo e dal giro in Europa rimettiamo insieme lo spettacolo insieme alla nostra Fondazione”. Poi però Lucio è morto il 1° marzo del 2012. Ma quel progetto non è andato perduto.

“Io cerco di essere il testimone di due grandi uomini e di due grandi artisti. – spiega Ovadia – Credo che capire il passato sia costruire il futuro. L’economia di giustizia, la lotta con gli oppressi arriva da lontano. La prima rivoluzione dal basso fu l’uscita dall’Egitto degli Ebrei e la loro lotta a Mammona, il dio del denaro”.

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