I prezzi sono piatti, ma i consumi non ripartono e l'economia si avvita mentre i Paesi ad alto debito vengono soffocati dagli interessi. Soltanto la Bce può fare qualcosa
Il dato di inflazione per l’Eurozona mostra a ottobre una tendenza piuttosto preoccupante. Su base annuale, i prezzi al consumo sono cresciuti di solo lo 0,7 per cento, da 1,2 per cento di settembre. A una prima lettura si potrebbe imputare la frenata ai forti ribassi dei prezzi dell’energia, soprattutto della benzina, ma osservando meglio si scorgono alcuni guai in vista, soprattutto per paesi come il nostro.
Fenomeno transitorio?
Per comprendere se in un sistema economico vi sono pressioni inflazionistiche o deflazionistiche, gli economisti tendono a guardare il cosiddetto dato core, cioè il nucleo di prezzi del paniere del costo della vita che esclude le componenti più volatili, come alimentari ed energia. L’andamento del dato core viene interpretato come affermazione di eventuali tendenze generali, cioè della possibilità che l’inflazione (o la deflazione) stia mettendo radici nell’economia. Ebbene, in Eurozona anche l’indice tendenziale di inflazione core fornisce a ottobre un dato problematico, passando da un già esile 1 per cento allo 0,8 per cento. Se poi si andasse a leggere il dato al netto delle manovre compiute dai governi su Iva e prezzi amministrati, si scoprirebbe che l’Eurozona sta flirtando con la deflazione. Nei mesi scorsi, il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, ha liquidato questo fenomeno come “transitorio” e lo stesso pare aver fatto, attraverso una portavoce, nei giorni scorsi.
La realtà sembra invece indicare che l’Eurozona stia sviluppando una pericolosa tendenza deflazionistica che, se non contrastata, rischia di portare all’avvitamento tutti i soggetti economici (pubblici e privati) fortemente indebitati. Che l’Eurozona tenda a produrre deflazione non dovrebbe stupire: la profondità della crisi tende a produrre esiti di questo tipo, soprattutto quando la crisi non è una “semplice” recessione, ma ha radice finanziaria.
È la deflazione di debito, come descritta dall’economista Irving Fisher dopo il crac di Wall Street del 1929. Causata da eccesso di indebitamento che porta a una severa contrazione economica, che a sua volta conduce alla riduzione del livello generale dei prezzi. In aggiunta a questa tendenza endogena, vi sono altre sorgenti globali di deflazione: il Giappone, con la forte svalutazione dello yen; la stessa Cina, con i suoi diffusi eccessi di capacità produttiva manifatturiera. Per un paese come il nostro, l’affermarsi di una tendenza disinflazionistica/deflazionistica rischia di essere letale, a causa del nostro elevato rapporto debito-Pil, in una economia che resta cocciutamente in contrazione. Talmente in crisi che persino l’aumento dell’Iva al 22 per cento non è riuscito a produrre spinte sui prezzi, evidenza che i venditori hanno in molti casi assorbito l’aumento dell’imposta sacrificando i propri margini pur di non aumentare i prezzi al consumo in una situazione di domanda agonizzante.
Le scelte di Draghi
A questo punto, considerato che la Bce ha il mandato di tutelare la stabilità dei prezzi, e che questo significa contrastare non solo le spinte inflazionistiche ma anche quelle disinflazionistiche, ci si domanda che farà Draghi. Il consenso di mercato è per un’azione entro il meeting di dicembre, che è anche quello in cui la Bce presenterà l’aggiornamento delle proprie previsioni di inflazione. Ma anche un eventuale intervento (che i mercati stanno cominciando a scontare, visto il rapido calo dell’euro contro dollaro degli ultimi giorni) rischia di non essere risolutivo, se attuato per vie convenzionali. Anzi, un calo del tasso ufficiale di interesse, accoppiato a tassi negativi sulle riserve libere che le banche detengono presso la Bce, potrebbe causare aumenti dei tassi che le banche praticano ai propri debitori. Servirebbe probabilmente qualcosa di simile alle operazioni non convenzionali attuate dalle altre maggiori banche centrali del mondo ma, come noto, ciò è precluso alla Bce dalla intransigenza tedesca, la cui fobia inflazionistica trova nuova linfa nella tendenza al rialzo dei prezzi immobiliari in alcune aree del paese. A ciò si aggiunge che i tedeschi si oppongono alla revisione della metodologia proposta dalla Commissione europea per calcolare il deficit strutturale di bilancio, cioè quello calcolato rispetto al Pil potenziale. Secondo la prima versione di tale metodologia gran parte del deficit pubblico dei paesi più deboli sarebbe strutturale e non ciclico. Cioè persisterebbe anche in caso di ripresa, rendendo l’austerità necessaria. Come sempre, il diavolo si nasconde nei particolari, soprattutto in quelli più esoterici per il grande pubblico. Come che sia, se la tendenza disinflazionistica dovesse essere confermata, servirà agire per evitare un disastro senza precedenti, in un quadro in cui si fantastica di una “ripresa” che è solo statistica, e in cui persino gli americani stanno innervosendosi per la cronicizzazione del male autoinflitto che di fatto sta privando l’economia del pianeta di un motore fatto da oltre mezzo miliardo di persone.
Dal Fatto Quotidiano di mercoledì 6 novembre 2013