Vendere la sabbia per pagare il cuneo fiscale? Il Pd solo all’ultimo ha ritirato i propri emendamenti-fotocopia alla legge di stabilità, il Pdl mantiene i suoi. La questione così rivela tutte le sue contraddizioni che stanno impegnando da mesi i tecnici del ministero dell’Economia e delle Finanze.

Il tormentone “il governo di Enrico Letta vuole vendere le spiagge” tiene banco almeno dal 26 settembre scorso, il giorno in cui negli uffici del sottosegretario Pd all’Economia, Pier Paolo Baretta, ad associazioni di categoria, Anci, parlamentari e rappresentanti delle istituzioni di tutta Italia era stato sbattuto sul tavolo l’ultimo ‘asso nella manica’ per cercare di sbollire una questione per anni all’attenzione delle procedure d’infrazione dell’Unione europea.

Baretta e i suoi erano partiti prendendo atto dello stato dell’arte, ovvero la mini-proroga montiana delle concessioni balneari al 2020 (sarebbero scadute nel 2015) votata dal Parlamento nel dicembre 2012 dopo la tesa manifestazione dei bagnini di tutta Italia, un mese prima, sotto la sede della Regione Emilia Romagna. Per difendere un settore che a suo modo pesa (nel Paese sono oltre 30mila le imprese balneari, molto diverse fra loro) dalla mannaia della direttiva Bolkestein, sempre calata sui rinnovi automatici dei titoli concessori ai soliti noti, il sottosegretario Pd era convinto di averla studiata bene.

Questa l’impostazione (da subito apprezzata dal Pdl): il tratto di arenile che comprende stabilimenti balneari, bar, cabine e ristoranti diventerà patrimonio dello Stato che lo cederà, a prezzo calmierato, favorendo con un’opzione di acquisto ad hoc gli attuali 30 mila concessionari. In ballo – e lo si capisce bene dalla bufera di queste ore – c’è il pezzo di spiaggia più redditizio, quello su cui insistono gli ambiti stabilimenti, che secondo gli intenti dei tecnici sarebbe stato ‘sdemanializzato’ e, alla fine, assegnato a condizioni speciali (di qui la “svendita”). E il resto dell’arenile? Nella proposta di Baretta veniva assegnato tramite le temute aste Ue ma, in un quadro del genere, a partecipare sarebbero gli stessi operatori una volta diventati proprietari delle aree degli stabilimenti.

Ebbene, l’impostazione si era mostrata fin dalle prime trattative in perfetto stile larghe intese, ma non abbastanza per evitare di sbandare contro Bruxelles aprendo la strada a un mare di contenziosi e ricorsi.

Prima dello stop ufficiale a Baretta da parte del suo vice ministro Stefano Fassina (il 25 ottobre rispondendo all’interrogazione a tema dei Cinque Stelle alla Camera, quando il vice ministro ha chiarito che “i temi normativi attribuiti con il documento in esame all’iniziativa del sottosegretario di Stato non sono la posizione del governo”) era stato annunciato che la ‘sdemanializzazione’ sarebbe approdata nell’impianto della legge di stabilità insieme con l’altra partita bollente per le spiagge italiane, quella dei maxi canoni pertinenziali (si pagano sui beni collegati alle concessioni) schizzati alle stelle con la finanziaria Prodi del 2007 e tuttora oggetto di ricorsi e contro-ricorsi. Macché: il castello è caduto dopo che (lancia in resta ma dietro le quinte) hanno cominciato a minarlo pezzi del Pd in giro per l’Italia, a partire da quello che in Emilia-Romagna appoggia il governo di un influente Vasco Errani, mai convinto che accettare una proposta come quella cara al Pdl avrebbe potuto risolvere problemi vecchi di decenni.

Caduta (allora) la ‘sdemanializzazione’, i tecnici mica si sono scoraggiati. Pochi giorni dopo il 26 settembre, il 9 ottobre, è stata l’agenzia del Demanio a spedire un documento riservato al ministero guidato da Fabrizio Saccomanni. Come ha raccontato “L’Espresso” in quei giorni, la novità presentata dal Demanio nel testo segreto era quella per cui i proventi di ombrelloni e lettini sarebbero andati alle Regioni e non più allo Stato. Come compensazione, si era pensato a una pari decurtazione dei trasferimenti da Roma alle Regioni medesime (che perciò non avrebbero vantaggi ad alzare il prezzo delle concessioni e a litigare con i balneari).

Il succo, come si è visto, non era cambiato. In merito alle procedure di gara, infatti, l’articolo 4 del progetto inviato a Saccomanni prevedeva di agevolare chi ancora una volta ha già la licenza di concessione: non venivano menzionati aumenti di canone e l’offerta più vantaggiosa sarebbe valutata “sulla base di un piano economico-finanziario di copertura degli investimenti”, analogamente a quanto avviene per le concessioni autostradali. Ma era il comma “J” dell’articolo 4 che avrebbe sbilanciato il provvedimento a favore degli attuali concessionari e, quindi, in contrasto con le norme europee: in vista delle prossime gare, il 40% del punteggio complessivo si sarebbe dovuto basare sulla “professionalità acquisita dall’offerente nell’esercizio di concessioni di beni demaniali marittimi per finalità turistico-ricreative e la professionalità acquisita relativamente all’area alla quale si riferisce la procedura”.

Alla fine, l’idea di far partire tutto dal Demanio non avrebbe cambiato nulla: sempre nel solco ‘anti-Ue’ si sarebbe rimasti. Rispondendo a Claudia Mannino (M5s) in aula, Fassina chiarì che “le ipotesi di soluzione riportate dalla stampa sono impraticabili in quanto in contraddizione con la disciplina comunitaria”.

Da lì si è giunti al caos parlamentare di ieri con l’emendamento ‘Baretta’ che, senza tenere conto del dibattito da fine estate a oggi, ha ricalcato le tesi del tavolo del 26 settembre. Il Pdl tira dritto: “La nostra proposta – insiste in queste ore il deputato riminese Sergio Pizzolante – salva 30mila imprese e produrrà un grande impulso agli investimenti e alla crescita, anche con il progetto di creare un fondo di garanzia per gli investimenti per la rottamazione-riqualificazione del nostro tessuto turistico alberghiero. Senza reali dismissioni del patrimonio pubblico non ci sono risorse per la crescita e per la riduzione delle tasse. L’alternativa è: più tasse, meno crescita”.

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