Jules not Jude è una negazione. Il nome della band bresciana deriva da un divertente aneddoto sui Beatles: Jules è Julian Lennon a cui Paul McCartney, poco dopo l’incontro col primogenito del collega baronetto, triste per l’assenza del padre, dedica Hey Jude. John Lennon, stupito dalla bellezza della canzone, esprime a Paul il proprio apprezzamento. Al brano però vorrebbe cambiargli il titolo. E infatti passa alla storia come Hey Jude. “Volevamo qualcosa che raccontasse un aspetto umano dei due compositori. All’inizio eravamo in due anche noi – racconta il frontman  Simone Ferrari –. Eravamo molto diversi e la negazione nel mezzo era perfetta”. Nel 2011, quando si recano in Inghilterra per girare e registrare il loro primo videoclip, la band che si ispira dichiaratamente ai quattro ragazzi di Liverpool, è ancora in divenire. Dopo migliaia di chilometri, due tour all’estero, un disco (All apples are red nel 2010) e due Ep (Clouds of fish del 2009 e Wonderful Mr. Fox del 2011), i Jules Not Jude finalmente diventano a tutti gli effetti una band, registrando il disco che segna l’avvenuta maturazione: The Miracle Foundation, titolo evocativo, ispirato dal nome di un’associazione americana che si occupa di orfani in India. L’album d’esordio si presenta molto bene: bella la copertina dai tratti beatlesiani anch’essi e belli gli otto brani che lo compongono, ben confezionati. Uscito lo scorso 11 novembre per la Urtovox Rec e aperto dalla bella Perfect Pop Song, le canzoni dalle sonorità beatlesiane raccontano storie di tutti giorni: dalla storia d’amore finita in malo modo alla critica al clubbing e ai suoi frequentatori, dalla rabbia che monta nella vita di un povero orfano a quella di un musicista nei confronti dei detrattori. Dopo la perfect song, saranno in grado i Jules Not Jude di produrre il loro perfect album? La voglia, l’impegno e la qualità non mancano, questo è certo e questo rappresenta senz’altro un ottimo punto da cui partire.

Chi sono i Jules Not Jude?
Siamo una band relativamente giovane. Nel senso che l’attuale formazione risale al 2012. Attualmente siamo Simone Ferrari, Mauro Parolini, Daniel Pasotti e Andrea Buffoli. Il progetto è nato all’inizio del 2008. Eravamo un duo, una manciata di canzoni e la curiosità di registrare. In realtà però siamo diventati quattro da subito. Ci servivano due elementi per poter suonare live i pezzi registrati. Dopo un paio di anni e un sacco di km in furgone abbiamo registrato un disco e siamo diventati un “quartetto”. Dopo altri km, abbiamo deciso di fermarci per scrivere un disco e registrare The Miracle Foundation. Nel 2013 dopo mesi in sala prove abbiamo registrato il nostro secondo album ufficiale e siamo diventati una band.

Qual è il motivo principale per cui avete deciso di metter su la band?
Scrivere pezzi, registrarli e suonarli cercando di farli ascoltare al maggior numero di persone possibile pensiamo sia un esigenza innata. È un bisogno primario. O ce l’hai o non ce l’hai. La cosa divertente è che viviamo questo bisogno primario molto più di allora. È questo il periodo storico nel quale sentiamo maggiormente l’esigenza. Forse mai come adesso, questo bisogno è stato cosi vivo e vitale.

Fra tutti i generi a quale vi sentite più legati?
Forse sia il pop. Anche se in realtà è difficile descrivere un genere al quale essere legati. Quando scrivi un pezzo lo fai in modo totalmente naturale, che l’ultima cosa a cui pensi sia in che genere inserirlo. Quindi crediamo sia più il genere che si lega a te di quanto tu ti leghi a lui. Ecco perché Popular.

Da qualche giorno è uscito il vostro disco d’esordio. Quali sono le vostre ambizioni al riguardo?
Le nostre ambizioni? Sicuramente che il disco venga ascoltato, che piaccia al maggior numero di persone possibili. E poi suonare live. Suonare il più possibile. Suonare all’estero, sempre di più all’estero.

Passiamo ai contenuti dell’album: di cosa parlano le vostre canzoni?
Le canzoni di The Miracle Foundation raccontano storie. Storie di disagio. Ma anche di emozioni, belle o brutte con un filo conduttore unico, le nostre esperienze personali. Piccole storie che possono essere condivisibili o meno.

Qual è il messaggio che vi piacerebbe passi a chi ascolti il vostro disco?
A differenza di molte altre band politicamente attive o politicizzate…si dice così? nella musica dei Jules not Jude non c’è un messaggio diretto, con un reale obiettivo o fine. I nostri pezzi sono costruiti su un approccio più emotivo, se ti fanno sentire qualcosa, allora il messaggio è arrivato forte e chiaro. I nostri pezzi sono storie, come detto, se qualcuno si rivedesse ascoltandole, leggendo il testo, cosa che non tutti fanno soprattutto in Italia, allora il messaggio sarà arrivato forte e chiaro, di nuovo.

Quanto sono importanti per voi i social network?
Fondamentali. Saremmo ciechi a non vedere quanto per una band sia essenziale il social. Il social apre porte che anni fa era impossibile pensare di valicare; anche se è difficile cogliere se il pubblico lo raggiungi realmente. Pensiamo sia inutile avere migliaia di amici in Facebook se ai tuoi concerti non viene nessuno e non comprano i tuoi dischi, ultimo luogo rimasto per poterli vendere a chi realmente interessato. E’ vero però pure il contrario: se ai tuoi concerti c’è tanta gente, sei abbastanza hype, sicuramente su Fb poi avrai molti amici. Questo tipo di relazione è un po’ malato.

Come pensate di promuovere il disco?
Sicuramente suonando il più possibile. La migliore promozione per un disco è il live, che per noi tra l’altro ha una valenza enorme. Per ora stiamo lavorando sulle date future che sono già una decina, ma ci auguriamo che aumentino esponenzialmente. C’è in cantiere inoltre l’idea di varcare nuovamente i confini per un tour estero nel prossimo anno.

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