Borja Vilaseca, classe 1981, insegnante, scrittore, giornalista e coach, è l’autore, e probabilmente il reale protagonista, celato dietro il protagonista Pablo Príncipe, de “Il piccolo Principe mette la cravatta”, un libro che racconta “una storia vera che sembra una favola”. Non è un vero romanzo, ma neanche il resoconto asciutto dell’inchiesta, condotta da Vilaseca, su una società di consulenza che, investendo nello sviluppo personale e nell’intelligenza emotiva dei propri dipendenti, in soli cinque anni, tra il 2002 e il 2007, è riuscita a centuplicare il proprio fatturato.
A ispirare il libro e la rivoluzione aziendale di cui narra, assolutamente turbolenta, travagliata e contrastata, è una semplice considerazione: un’azienda è come un essere umano, ha necessità, sogni e sentimenti e fino a quando il suo modello organizzativo non terrà conto del benessere fisico ed emotivo dei propri dipendenti, mettendone a frutto capacità, inclinazioni e aspirazioni personali e rispettandone le esigenze extra lavorative, difficilmente riuscirà a raggiungere performance significative con il proprio business.
Ho pensato a Pablo Príncipe e alla sua rivoluzione leggendo la classifica 2013 World’s Best Multinational Workplaces, stilata da Great Place to Work® dopo aver esaminato, tra la fine del 2012 e la metà del 2013, migliaia di aziende in 45 Paesi. Al primo posto c’è Google, di cui è ben noto l’approccio innovativo alle risorse umane, che mixa incentivi economici con strategie di conciliazione tra vita privata e lavoro, tra cui 5 mesi di maternità retribuita extra, e di gestione in completa autonoma di una parte del tempo lavoro. Non solo. In Google la tendenza è condividere gli spazi di lavoro, coinvolgere i dipendenti nelle nuove assunzioni, creare meccanismi di condivisione delle idee e dei progetti, per liberare la creatività e stimolare l’iniziativa personale. Esiste la possibilità di lavorare fuori dall’ufficio, in mobilità, e organizzare il proprio orario secondo quanto quel progetto necessita in quel momento.
Niente di più lontano dal tipico ménage d’ufficio all’italiana: il collega che vuol “farti le scarpe”, la gara a chi tira più tardi la sera, l’attaccamento, quello fisico non emotivo, alla scrivania, i documenti sottochiave, gli ambienti di lavoro privi di comfort, il parossistico controllo fisico del dipendente.
Un controllo fine a se stesso, un controllo per il controllo, svincolato dalla misurazione dei risultati, quasi se come l’essere produttivi fosse determinato solo dall’essere presenti. Non esiste una cultura del risultato, che probabilmente deriva dal non aver saputo costruire una cultura del merito.
Eppure i benefici rilevati dalle aziende che nella gestione del personale hanno attuato (timide) scelte orientate alla flessibilità, soprattutto attraverso il lavoro in remoto, l’uso delle nuove tecnologie e la personalizzazione dell’orario di lavoro, sono notevoli. Hanno portato a un sensibile miglioramento della motivazione e a un miglior equilibrio tra lavoro e vita familiare dei dipendenti (nell’84% dei casi), alla riduzione del tasso di assenteismo (55%) e all’incremento delle prestazioni lavorative e della produttività delle persone (48%). Non ultimo, tali risultati si accompagnano a una riduzione dei costi aziendali, sfatando il mito che la flessibilità del lavoro sia un vantaggio esclusivo dei dipendenti, mentre è chiaro che è un fattore chiave per la crescita nel desolante scenario economico attuale (dati Osservatorio Smart Working).
Che cosa impedisce dunque di uscire dallo schema tradizionale, direi novecentesco, del lavoro?
Per le aziende gli ostacoli principali sono l’incertezza sull’effettiva capacità di coordinare di far collaborare i dipendenti e, appunto, il timore di perdere di controllo, che evidenzia quanto il management sia poco orientato alla delega e al lavoro per obiettivi (dati Osservatorio Smart Working).
Un altro punto nodale è la totale impermeabilità ai possibili sviluppi dell’organizzazione delle risorse umane date dall’uso delle nuove tecnologie. Perché se io svolgo prevalentemente il mio lavoro su un computer devo per forza farlo tra le quattro mura di un ufficio? In un’ottica di abbattimento dei costi, perché le aziende devono continuare a sostenere i costi degli spazi di lavoro, sempre più sovradimensionati rispetto alle necessità? In Italia finora, e non senza sforzo, la possibilità di rendersi liberi e indipendenti da luoghi, abitudini e routine grazie a Internet sembra essere stata colta solo da chi ha deciso di rompere gli schemi e ripartire, alla ricerca di un benessere prima interiore che economico. Freelancer e piccoli imprenditori che hanno lanciato business online innovativi.
Se è vero che la produttività passa anche dalla soddisfazione personale, dal riconoscimento dei risultati, dal superamento della percezione del tempo lavoro come un tempo di non-vita, il nomadismo digitale potrebbe diventare anche una nuova possibilità per le aziende di organizzare le proprie risorse umane, o almeno una parte di esse, producendo maggiori risultati e dipendenti più motivati e felici?
di Marta Coccoluto