Gabriela ha lasciato il posto fisso dopo 10 anni. "Volevo realizzare qualcosa di concreto con il mio lavoro in un Paese in via di sviluppo". Quindi si trasferisce in Africa. Prima insegna il mestiere ai giornalisti locali. Poi, con una collega francese, gira "Juba in the making", un web documentario per raccontare la costruzione della città
Gabriela Jacomella ha 36 anni. Il 1 luglio del 2011, dopo dieci anni di carriera giornalistica, si licenzia dal Corriere della Sera. Il 9 luglio dello stesso anno nasce ufficialmente la repubblica del Sud Sudan, dopo decenni di guerra civile, accordi di pace ed un referendum per la secessione dal Sudan. In questa strana coincidenza di date ha inizio un valzer che porterà Gabriela nel neonato stato africano. “Dopo un po’ di anni da redattrice fremevo per fare esperienze nuove – racconta – sognavo di legare il giornalismo alla concretezza dell’azione in un paese in via di sviluppo, ma non trovavo il modo di unire queste due passioni. A 34 anni avevo le energie per lasciare il posto fisso, una boa di salvataggio che per me in quel momento era piuttosto una scusa per non migliorare e crescere”. La scelta di Gabriela non è improvvisata, ma frutto di un percorso maturato nel tempo. Ecco perché, dopo qualche mese di lavoro fra l’Italia e New York, non si lascia sfuggire un’ipotesi allettante che le si presenta: andare in Sud Sudan a formare cronisti locali per un giornale in lingua inglese appena nato, “The New Nation”.
“Venire a Juba è stata una grande sfida. Non si trattava più di terreni a me conosciuti, come New York, ma della capitale di uno dei paesi più poveri al mondo”. Al suo arrivo, Gabriela si trova in un paese ancora traumatizzato dalla guerra. “Sono dovuta arrivarci via terra dall’Uganda, dove avevo un incontro preliminare di lavoro; girava voce che lungo la strada ci fossero check point non autorizzati dove potevi essere minacciato e taglieggiato, ma fortunatamente non era vero. Ti scontri subito con la mancanza di infrastrutture: nel paese – grande come la Francia – c’è una sola strada asfaltata, e durante la stagione delle piogge le piste di terra battuta sono impraticabili. A Juba non si possono usare bancomat o carte di credito, non esistono indirizzi o servizio postale, e manca la linea elettrica: in tutta la città ci sono solo otto generatori di proprietà del governo, sette sono rotti e non ci sono meccanici specializzati per ripararli. Chi può permetterselo, usa generatori o pannelli solari. Niente rete idrica, niente fognature”.
Gabriela trova però un’accoglienza che la conquista. “I Sud Sudanesi hanno un orgoglio come popolo che raramente ho visto altrove. È una nazione molto dipendente dagli aiuti, ennesima dimostrazione che di strategie umanitarie non capiamo niente, ma nelle persone c’è un’umanità rara e preziosa. C’è tensione, certo, e in genere gli occidentali vivono in compound con filo spinato e guardia armata, peraltro molto costosi: una stanza per i nostri standard, pulita e con elettricità, costa anche 1500 dollari al mese. Più che a New York”. Finito il progetto di formazione dei giornalisti, Gabriela decide di fermarsi: “Quattro mesi non erano bastati per capire questo posto, capire me stessa e cosa fare di questa esperienza. Sono rimasta senza alcuna garanzia, ho lavorato alcuni mesi con il ministero dell’informazione e ripreso il mio lavoro di freelance. Poi, con la collega francese Florence Miettaux, ci siamo inventate il progetto di Juba in the making, un web documentario per raccontare la costruzione della città”. L’idea ambiziosa è far scoprire Juba attraverso un gioco di ruolo che ha dei protagonisti da accompagnare nelle loro attività, usando il supporto di videointerviste e informazioni. L’uso dell’interattività permette di raccontare cose che altrimenti le persone non direbbero davanti alla telecamera, come la corruzione o le difficoltà burocratiche. L’idea è poi produrre un dvd per far conoscere Juba in the making nelle scuole e nelle università, ed ampliarlo alle competenze dei giornalisti locali affinché, racconta Gabriela, “lo usino loro stessi come modo per informare. Vorremmo farne una cosa loro, non nostra”.
Gabriela e Florence hanno vinto un finanziamento dell’European Journalism Centre che ha coperto i costi iniziali del documentario e hanno scelto di integrare il rimanente affidandosi a piccoli e grandi sostenitori che possono aderire al progetto attraverso il crowdfunding. Per inizio anno è prevista la presentazione ufficiale a Juba, sponsorizzata dall’ambasciata francese e affiancata da un ciclo di incontri all’università. In questo panorama, l’Italia sembra ormai lontana. “Ovviamente ho nostalgia della vita italiana e della mia famiglia. Il futuro lo immagino fra i due continenti, ma vedo più possibilità per me e per il mio compagno, entrambi giornalisti, qui in Africa, dove c’è grande entusiasmo, bisogno di professionisti affidabili e fame di informazione. L’Africa vuole raccontarsi, è stufa di essere raccontata (poco e male), e visto che il mio compagno è keniota, chiedergli di rinunciare a questa grande sfida sarebbe un atto di profondo egoismo. Credo sia importante per noi ‘giornalisti occidentali’ fare un passo indietro, e imparare ad ascoltare i protagonisti. Anche quando le loro voci diranno cose che non ci piacerà sentire”.