Nella perizia agli atti del processo sulla discarica ex Resit di Giugliano (Napoli), vengono svelate le responsabilità delle istituzioni. Tra questi l'ente provinciale di Napoli, l'unico a guida Verde in Italia
Chi doveva controllare non ha controllato. Chi doveva proteggere la Terra dei Fuochi dai veleni che la camorra provvedeva a sotterrare fino a inquinare le falde acquifere, ha messo la testa sotto la sabbia. Per accidia, pigrizia o complicità, chissà. Lo dicono le decine e decine di pagine della perizia del geologo Giovanni Balestri, agli atti del processo sulla discarica ex Resit di Giugliano (Napoli), concluso pochi giorni fa con la condanna del boss Francesco Bidognetti a 20 anni di carcere per disastro ambientale e inquinamento della falda sottostante lo sversatoio, mentre 6 anni sono stati inflitti all’ex parlamentare radicale Mimmo Pinto, ex presidente della società pubblica che gestiva il sito.
Una relazione durissima, che chiama in causa gli enti pubblici. Colpevoli di aver tollerato analisi scientifiche “carenti”, “inutili”, “superficiali”, orientate a occultare lo sfacelo in atto piuttosto che a denunciarlo, e a far assumere i provvedimenti necessari per mettere a riparo la salute dell’ambiente e dei residenti. Provvedimenti che non ci sono mai stati. Nel documento si indicano le responsabilità. A cominciare dall’Agenzia Regionale dell’Ambiente della Campania (Arpac), che avrebbe prodotto analisi “manifestamente non corrispondenti alla realtà delle acque di falda campionate” e comunque “spesso ‘indirizzate’ verso valori favorevoli: è il caso di alcuni metalli, notoriamente alti in zona, dove sono quasi sempre riportati in concentrazioni uguali ai limiti della normativa. Altro caso è l’assenza di investigazione di tutti quei parametri chimici indicatori dell’eventuale contaminazione in falda, parametri lasciati sempre tutti ‘in bianco’”. Proseguendo con la Provincia di Napoli che trasmetteva “sempre con notevole ritardo (più di sei mesi) le analisi all’Istituto superiore per le considerazioni del caso, considerazione che poi sono arrivate sempre estremamente superficiali (conseguenza delle analisi Arpac superficiali)”. Ciò accadeva dal 2000 al 2003, anni in cui si poteva ancora cercare di salvare il salvabile. Anni in cui l’amministrazione provinciale di Napoli era l’unica a guida Verde in Italia. La beffa del danno.
Secondo il consulente della Procura di Napoli, esistevano anche carenze di carattere metodologico: “Inizialmente i tavoli tecnici che si sono svolti per stabilire frequenze di campionamento e tipo di analisi hanno portato a dei parametri da analizzare non in linea con la normativa del momento, parametri tutti sbilanciati verso il problema igienico-sanitario, per evidente influsso dell’Istituto superiore della Sanità, ma non utili allo studio della contaminazione in atto da parte delle discariche sovrastanti. Eppure “l’Arpac ha svolto le analisi non in linea con le indicazioni del tavolo tecnico che ha sottoscritto, se non in parte nell’ultimo periodo, sebbene la maggior parte delle voci in analisi risultano comunque ‘in bianco’”.
Indicazioni errate, praticate alla meno peggio. Per non parlare di quei rapporti dell’Arpac in cui la colpa della compromissione delle falde veniva addebitata alle fogne o alle pratiche zootecniche. Minimizzare, era la parola d’ordine. Intanto il veleno del percolato entrava in circolo. Quanto alla Provincia a guida Verde, il perito va giù duro: “La Provincia di Napoli non ha comunque mai dato seguito al fatto che alcuni parametri chimici individuati nelle analisi chimiche fossero oltre le concentrazioni limite della normativa vigente”. Inoltre “non ha mai segnalato quei rari casi di superamento”. Risultato: “il Prefetto delegato non si allarmasse sul reale stato di contaminazione della falda nel Giuglianese”. Questo mentre “l’amministrazione provinciale di Napoli negli anni ha omesso i controlli mensili sulle acque di falda, come richiesto già dall’ordinanza prefettizia del giugno 1997”, impedendo così “la possibilità di verificare l’eventuale superamento dei limiti di accettabilità della contaminazione, limite oltre i quali scattava l’obbligo della bonifica”.