Su questa crisi è già stato detto di tutto ormai. Di tutto e di più, a seconda di come tira il vento. L’unica cosa certa però è che dura ormai da oltre sei anni. Infatti l’apice della crisi è stato toccato nel settembre 2008 col fallimento di Lehman Brothers, ma la crisi è iniziata in America più di un anno prima, nella tarda primavera del 2007, con la rapida implosione del mercato immobiliare americano e la conseguente crisi di liquidità che ha colpito tutte le grandi banche, a partire da quelle americane. E quando una crisi dura così tanto, anche se non è perfettamente “consacrata” dai parametri canonici usati dai professori in materia, si può ben dire che si è in “depressione economica”.
Infatti, nemmeno il prof. Krugman lo dice, però persino lui, nel suo scritto di ieri, che intitola “A permanent slump?“, si chiede se siamo entrati in una “discesa permanente”. Che in linguaggio popolare equivarrebbe a dire che potremmo già essere in depressione, e ciò che è peggio, ci potremmo restare a lungo. Io però più o meno le stesse cose le dicevo già il 27 luglio del 2011 in un mio articolo su Rinascita. La differenza (sostanziale) è che il Krugman di oggi si riferisce all’attuale situazione americana, mentre io nel 2011 mi riferivo espressamente a quella europea.
Se non stessimo vivendo una tragedia sarebbe persino divertente andarsi a rileggere le sciocchezze sulla ripresa economica europea che circolavano in quel periodo. Quasi tutti (in Italia) davano per scontato che ormai eravamo praticamente fuori dalla crisi. Sulla base di cosa? “Ma dei listini di borsa, no?! Non vedi che hanno già recuperato tutto il terreno perso durante la crisi?”. Io, che proprio in quel periodo avevo appena firmato un altro articolo dal titolo: “Tsunami economico in vista”, dovevo solo star zitto. Quelli che paventavano seri pericoli di una grave caduta recessiva anche in Italia rischiavano di essere derisi come “catastrofisti” e allarmisti.
E invece è accaduto. E non era difficile prevederlo, dato che si tratta di una esperienza già fatta. Infatti si sono ripetuti in questo inizio di secolo gli stessi errori fatti dagli economisti americani quasi un secolo fa. A partire dal 1931, quando il tentativo di sconfiggere la grave recessione subentrata al crollo di borsa del 1929 venne attuato mediante una “virtuosa” e severissima politica di austerity. Il risultato fu di veder deragliare anche quel poco di ripresa economica fin lì raggiunto e di avviare un lungo periodo di depressione che durò un quarto di secolo fino alla seconda guerra mondiale.
Se allora ci fu l’inesperienza a giustificare almeno in parte il grave errore degli economisti, oggi non è più ammissibile ripetere gli stessi errori. In più oggi si aggiunge il rischio di una globalizzazione anche della depressione. Le uniche imprese produttive che se la sono cavata bene durante questi anni di crisi sono quelle che esportano gran parte del loro prodotto, ma anche questa possibilità si sta riducendo, perché tutti vorrebbero esportare di più, ma nessuno ormai ci riesce abbastanza, perché tra crisi e austerità nessuno, soprattutto a livello governativo, ha più abbastanza soldi da spendere per crescere.
Ormai non funzionano più bene nemmeno le politiche monetarie (per i paesi che possono farle). Quelle sono come la droga degli atleti. Se sono in pochi a prenderla, vincono quei pochi. Se la prendono tutti non serve a nessuno. Ci vuole molto di più. Molto più lavoro. E se non c’è bisogna inventarlo (si può, ma di questo parleremo un’altra volta).
Dallas, Texas