Tra Acilia e Ostia e più o meno tra la Via del Mare e il Tevere, costeggiato dall’autostrada Roma-Fiumicino, da una parte c’ è Casalpalocco e dall’altra Dragona. Sopra, su una collina, c’è Dragoncello. Gli isolati stretti ed allungati che contraddistinguono la maglia urbana di Dragona, qui non esistono. Tutto si muove partendo da via di Dragoncello, una sorta di asse generatore del complesso. Palazzine alte, dalle linee austere, che a dispetto del fatto di essere state costruite abbastanza recentemente, mostrano inequivocabili segni del tempo. Ma anche abitazioni massimo a due piani. Nel complesso molta edilizia, ma anche pochi servizi. Intorno il verde non manca, anche se molto poco curato. Le strade poi sono generalmente punteggiate da buche. In giro, prima del tardo pomeriggio, quando si rientra a casa, di persone non ce ne sono molte.
Un quartiere di Roma, all’interno del X Municipio, nel quale l’architettura non sembra segnalarsi per la sua qualità, il disegno urbano dà l’impressione di essere rimasto quasi estraneo ad una ragionata pianificazione. Ma la sua realizzazione ha permesso la scoperta e lo scavo, nei primi anni Ottanta, di numerosi impianti rustico-residenziali di età romana. Insomma una fortunata occasione per riconoscere importanti testimonianze del popolamento dell’area peri-fluviale durante l’antichità. Strutture con planimetrie e tecniche costruttive differenti. In qualche caso con resti anche significativi delle decorazioni pittoriche parietali e dei pavimenti a mosaico con motivi geometrici e figurati. A quest’ampio numero di villae, nel 2011 se n’è aggiunta un’altra. Anche questa volta in maniera fortuita, nel corso di alcuni lavori infrastrutturali. E’ accaduto quasi all’estremità di via Alfredo Ottaviani, in coincidenza di uno dei limiti della conurbazione.
La notizia della scoperta e le successive indagini condotte dalla Soprintendenza archeologica di Ostia, lasciate senza seguito. Senza quelle opere di tutela che avrebbero potuto garantirne la valorizzazione. Che arrivando in qualche modo sul sito non si fa fatica a verificare sono del tutto mancate. Sono assenti indicazioni di qualsiasi tipo sulla sua esistenza, anche in loco. Aldilà del marciapiede sul quale è una ciclabile, uno spazio inedificato, l’unico, nella schiera di villette a due piani che perimetrano verso monte la strada, l’unico labile indizio. Asceso il terreno in forte declivio verso la strada, facendosi largo tra la vegetazione spontanea, si giunge ad una recinzione sulla quale campeggia, oltre ad alcuni divieti, un cartello che segnala trattarsi della Riserva Naturale Statale del Litorale Romano. In un punto è stato aperto un varco, così è facile “entrare”. Di là la Città, di qua, la campagna.
I resti della villa sono lì, all’interno dei settori regolari di scavo, contorniati dai cumuli di terreno asportato nel corso delle indagini. D’estate ci sono i papaveri, d’inverno è una distesa di erba, di altezza differente. Nonostante le denunce dell’Associazione Culturale Severiana, rimbalzate da diversi quotidiani locali, ma anche da Romatoday e perfino dal Corriere della Sera, l’abbandono prosegue. Sull’ettaro sul quale si articolava l’impianto, si riconoscono ancora un ambiente rettangolare con spessi muri provvisti su un lato di tre pilastri, in scaglie di selce rivestiti in cocciopesto, al quale si accede attraverso una sorta di rampa. Poi, un cortile centrale con portico, un settore residenziale e una zona con ambienti pavimentati in cocciopesto. Ma sono presenti anche diverse canalizzazioni. L’utilizzo di tecniche costruttive differenti, così come il riutilizzo di materiali di ogni tipo, soprattutto laterizi, evidentemente rimanda a fasi successive. Peraltro confermate dall’esistenza di variazioni non solo nella pianta ma anche nella funzione di alcuni ambienti. Le malte sono ormai quasi ovunque distaccate dalle murature, cosicché lo stato di conservazione della gran parte delle strutture risulta quanto mai precario. Quanto ai pavimenti, la situazione sembra perfino più compromessa. Con gli elementi in cotto della cosiddetta spina di pesce ormai quasi tutti fuori posto. Con i battuti quasi per intero “sconvolti”. Con i pavimenti a tessere bianche, piccole, completamente “saltati”. Le tegole poste a copertura di un canale, quasi tutte spaccate. Dalle sezioni di terreno dello scavo spuntano una quantità incredibile di materiali ceramici. Vernice nera, sigillata italica, naturalmente anfore e dolia. Spesso chi viene, riporta con sé qualche frammento ceramico. Come ricordo. Qualcun altro, ha utilizzato la spianata della villa per il barbecue.
E’ così che si rende inutile la presenza di spazi culturali. Lasciando che rimangano sostanzialmente estranei alla collettività. Anzi, sconosciuti. In un settore della Città, nel quale i luoghi di condivisione, di sana aggregazione, sono quasi del tutto assenti, l’archeologia potrebbe svolgere questa funzione. Diventare parte vitale, motivo di identificazione, per un contesto difficile. Alla fine degli anni Trenta, prima della Guerra, l’urbanistica romana, puntava ad uno sviluppo della città verso il mare e chiamò “la coda della Cometa” una ben argomentata progettualità in tale direzione. Negli anni Cinquanta si decise che sarebbe stato preferibile lo sviluppo verso est. Quel che è accaduto in seguito, una confusa espansione, senza meta. Provare a mettere ordine, nel disordine di un tempo così lungo può anche passare da un ripensamento di parti della Città. Da una ridefinizione degli spazi e delle funzioni. Dopo averne analizzato le potenzialità. A Dragoncello, che è Roma, senza realmente esserlo, servono servizi e molto altro, per ridurre le distanze. Forse anche il recupero del Patrimonio archeologico potrebbe essere funzionale a questa operazione.