Ripubblichiamo l'articolo scritto in occasione del ventennale dell'uscita del libro, nel 2010. Come sono cambiate le vite dei ragazzi protagonisti di "Io speriamo che me la cavo", insieme all'intervista all'autore Marcello D'Orta: il successo inaspettato, le critiche e le minacce
Arzano (Napoli) – Vincenzo adesso ha un’officina meccanica. Ripara auto, moto, motorini. L’ha aperta ad Arzanello, la zona antica di Arzano, la zona più “sgarrupata” dell’intero paese. A due passi c’è la scuola Primaria Statale “Tiberio”. Lui, vent’anni fa, andava lì. Il suo maestro era Marcello D’Orta. Lui è uno dei bambini di “Io speriamo che me la cavo”. Ed è sempre lui ad aver fatto scoprire al mondo il termine “sgarrupato”, poi finito sull’Enciclopedia Treccani (sì, proprio lì).
Siamo a otto chilometri da Napoli, a due in linea d’aria da Scampia e Secondigliano. Afragola poco oltre. Lo chiamano il quadrilatero di Gomorra, lo stesso raccontato da Roberto Saviano prima e Matteo Garrone poi. Droga, buche, immondizia, fetore, omicidi (quattro negli ultimi cinque mesi), un comune sciolto per infiltrazioni malavitose, edilizia “spontanea”, tutto vero. Anche i navigatori satellitari si perdono tra vie, viuzze, strade fantasma e cavalcavia improbabili. Dove il mercato del mattone non rispetta i parametri nazionali: in alcune zone si toccano i mille euro a metro quadro “a patto che ci sia qualche coraggioso pronto a tirarli fuori” precisa un agente immobiliare del luogo. “Qui, il primo piano regolatore è stato approvato pochi mesi fa dopo quarant’anni di libera iniziativa” racconta un esponente della Cgil locale.
In questa realtà, è nato un libro da oltre due milioni di copie vendute nella sola Italia, traduzioni sparse per l’intero mappamondo, compresa Corea del Sud e Giappone; un film di Lina Wertmüller con Paolo Villaggio protagonista e uno spettacolo teatrale che ha calcato i maggiori palchi dello Stivale. Un vero e proprio caso editoriale, non ancora digerito dal paese campano: “Quello (il maestro D’Orta, ndr) si è venduto qualcosa di inesistente, ci ha fatto passare per dei cafoni, quando certi problemi esistono ovunque” è il refrain perenne. Guai a obiettare o chiedere che fine hanno fatto i ragazzi. Silenzio assoluto, degno del miglior lutto o della più grande vergogna. Quasi nessuno ricorda, altri nicchiano, altri ancora insultano o se ne vanno. C’è anche chi, vent’anni fa, è arrivato a portare in tribunale il maestro per ottenere i diritti d’autore per i propri figli. Non gli è andata bene e oggi preferisce tacere: “Meglio lasciar perdere. Cosa fa adesso il mio ragazzo? Sta bene ed è sposato, ma non vuole parlare, ha sofferto troppo”. Ma questa non è stata l’unica causa intentata o solo pensata: anche il celebre bidello, quello che nel libro (e poi nel film) vendeva i quadrati di carta igienica ai bambini, non è stato particolarmente lieto dell’improvvisa botta di notorietà.
Comunque, a prescindere dai soldi, un risultato c’è stato: lo stesso maestro non è più potuto tornare ad Arzano per le tante minacce. E le poche persone disposte a ricostruire il quadro di quegli anni ‘80, lo fanno a voce bassa. Di nascosto. “Vede, siamo un piccolo paese, appendice di una grande realtà, quella napoletana. Allora, quei riflettori, ci hanno quasi spaventato – spiega un insegnate ora in pensione – all’improvviso tutti parlavano di noi, ridevano, ci puntavano il dito contro come fossimo il peggio del peggio. Ci siamo sentiti schiacciati al muro e, forse, non abbiamo avuto la forza di uscire dall’angolo e sfruttare quel momento per riflettere e migliorare. Peccato. Però, rispetto ad allora, la scuola è tutta un’altra cosa”. Vero.
“Allora era esattamente come descritta nel libro– ricorda Antonella Schioppa – i miei compagni erano così, quasi tutti scugnizzi: c’era il bullo, quello disagiato, l’altro con problemi psichici o il bambino qualunque. Io ero con loro”. Sì, anche lei se l’è “cavata”. Come Vincenzo. Adesso fa l’attrice, la ballerina, la cantante, un’agente che si occupa della sua immagine. Ha anche un nome d’arte “Anyash”, e ha partecipato ad alcune trasmissione Rai. Raramente torna alle “origini” (“Quando vado a trovare mia madre”) e parla dei suoi amici di allora come di uomini realizzati (“Ora hanno tutti un lavoro”). Non è così. Sì, la maggior parte di loro ha affrontato un percorso “classico”: lavoro, famiglia, figli. Magari al nord. Altri hanno dato seguito alle intemperanze adolescenziali e si sono messi nei guai, specialmente con la droga.
“Come era il paese? – prosegue Antonella – legga il libro. Non c’è nulla di inventato. Vede, la nostra era ed è una realtà complicata. Dove la criminalità si sentiva sin dall’infanzia”. Ieri, come oggi. Nella stessa scuola “Tiberio” ci spiegano come è possibile avere, per classe, anche sei-sette figli di carcerati, ex carcerati o ai domiciliari. “Vuol dire – racconta una delle insegnanti – rapportarsi con alunni difficili da trattare, spesso non abituati a confrontarsi con le regole, con dei “no”. Certo, allora la realtà esterna era peggiore, molto. C’erano delle madri che si presentavano in pigiama, o degli studenti della quarta che entravano nel cortile con il motorino. Quindi scorribande e dispersione. Oggi no, fuori da quel cancello (e indica l’entrata, ndr) c’è una Arzano, qui dentro ci siamo noi”.
Tradotto: l’istituto ha una struttura all’avanguardia. Via gli stereotipi. Via i pregiudizi. Dentro c’è la sala computer, la biblioteca, il teatro. Uno spazio insonorizzato dedicato alla musica e una palestra con il campo regolamentare di basket. Quasi tutti i bambini portano il grembiule con il fiocco al collo, i bagni funzionano – la direttrice ci tiene, molto, a farcelo notare –, a metà mattina si distribuisce la frutta o la verdura. Si realizza un giornalino. E si insegna la raccolta differenziata. Anche i genitori rispettano la liturgia della campanella: aspettano fuori dalla struttura ed entrano solo dopo il via libera dei bidelli. Tra loro c’è anche uno dei vecchi alunni del maestro D’Orta. Sono passati vent’anni, è diventato un uomo ed è pronto a stringere la manina di suo figlio.
L’intervista a Marcello D’Orta di Alessandro Ferrucci
“Il manoscritto l’avevo spedito a tutti gli editori. Nessuna risposta. Poi, quando lo stavo per buttare nel secchio, ecco l’idea di proporlo a Mondadori. E da lì è nato tutto”. È nato uno dei più grandi successi editoriali italiani.
Maestro D’Orta, qualcosa di inaspettato…
Totalmente: pensi, ne stamparono solo 5 mila copie. Poi un articolo de il Mattino, in seguito ripreso dagli altri, ed ecco il “botto”.
Cos’è successo dopo la pubblicazione?
Il paese si spaccò in due per le critiche.
Adesso la accusano di aver esagerato.
Guardi, vent’anni fa, nella mia scuola, le condizioni erano esattamente quelle scritte nei temi: mancava la palestra, i bagni erano indecenti e così via. Di mio non ho messo niente. Al limite ho solo organizzato una sorta di collage…
Vuol dire?
Assegnavo una determinata traccia, poi tagliavo il superfluo e magari assemblavo vari temi ad argomento unico, tipo “descrivi il tuo paese”. Ne traevo la summa. Dopo la pubblicazione, non è più potuto tornare ad Arzano… È così. Ho ricevuto molte minacce. E i genitori si riunirono in una sorta di comitato per “battere cassa”, per i diritti di autore.
Come è finita?
Non era possibile, perché i temi non provenivano solo da Arzano, ma anche da Secondigliano dove ho insegnato 5 anni.
Perché nel libro si parla solo di Arzano?
Lo decise la Mondadori per creare il caso maestro-contro paese. Insomma, una questione di marketing esattamente come nel caso di Lara Cardella con Licata per “Volevo i pantaloni”.
I proventi sono rimasti tutti a lei…
Ho cercato di regalare una bella cifra al bambino più povero del paese, a simbolo. Niente da fare, ho dovuto rinunciare.
Perché?
Scoppiò una guerra tra famiglie per dimostrare chi era il più povero. Non solo: alcuni produssero dei falsi per accreditarsi come “genitori degli autori” dei temi.
Da allora, come è cambiata la sua vita?
Completamente: ho mollato l’insegnamento, ora sono uno scrittore, faccio l’opinionista. E vivo a Napoli.