Nel mese di novembre, ogni anno, Parigi “scoppia” di fotografia. Paris Photo è forse la più importante rassegna mondiale che vede editori, gallerie e autori raggruppati sotto la magnifica struttura in stile art nouveau del Grand Palais. Ma è tutta la città che, attorno all’evento, si anima di fotografia, respira fotografia.
Ed è emozionante vagare incrociandola dietro l’angolo: l’offerta di mostre, eventi, incontri con fotografi sfiora talvolta la bulimia.

"Karczeby" (foto © Adam Panczuk)

Molto ho camminato, molto ma non tutto ho visto di Paris Photo: da Salgado che con Genesis occupa interamente la Mep, al cileno Sergio Larrain presso la Fondation Cartier-Bresson. Da Blumenfeld a Jeu de Paume fino alla grande antologica su Brassaï offerta dall’amministrazione della città allHôtel de Ville. Per ognuna di queste mostre, da registrare una costante e ininterrotta affluenza di pubblico.

Se devo dire cosa più mi è rimasto attaccato addosso, fermandomi un minuto prima dell’”indigestione visiva” e un minuto dopo la ribellione delle gambe per i chilometri a piedi attraverso Parigi, ho trovato ad esempio davvero intenso e profondo il lavoro Spasibo di Davide Monteleone; esposto nella Chapelle des Petites Augustins, già il dialogo tra immagini e spazio espositivo è emozionante di per sé. Ma poi tutto il progetto ci risucchia nella vita della Cecenia di oggi, in bilico tra incertezze psicologiche, solitudini e parvenze di benessere, dove scorre un tempo privato del tempo, sospeso tra dramma e anestesia. Tutti seduti, sempre e comunque, su una polveriera.

"Karczeby" (foto © Adam Panczuk)

In assoluto l’amore a prima vista, come ogni grande amore insondabile e forse irrazionale, è scattato però quando mi sono imbattuto in un libro, uno tra i molti nella sezione di Paris Photo dedicata alle “opere prime”  (intese come primi libri fotografici di altrettanti rispettivi autori). Tra questi, alla fine della manifestazione, una giuria decreta il vincitore, ovvero il libro ritenuto più valido e convincente.

Mi tocca a questo punto esprimere una mia impressione, e sottolineo mia, di carattere generale: l’autoproduzione del libro fotografico (il self publishing) è una grande opportunità, che permette oggi a chiunque di produrre un libro e mostrare il suo lavoro, facilmente e a basso costo.
Questo però, come tutte le cose credute facili  – ma che facili non sono – produce anche ricadute negative.
La più evidente è che, in un ammirevole slancio artigianale e creativo, si cura in ogni dettaglio il libro come oggetto, come meraviglioso contenitore, ma troppo spesso mancano… le foto. Mancano nel senso che lo spessore del lavoro contenuto è sovente inconsistente e pretestuoso.

Non è questo il caso di un libro in concorso (che non ha vinto) dal titolo Karczeby, del trentacinquenne fotografo polacco Adam Panczuk.

"Karczeby" (foto © Adam Panczuk)

Anche per i fotografi in genere vale la regola che più uno è bravo, meno “se la tira”. Karczeby è incantevole perché, secondo me, ha un dono prezioso: la grazia. Parlare oggi di grazia a proposito di un progetto fotografico suona quasi anacronistico. Ma è proprio questa “la ciliegina”. Ovvio che non possono mancare visione, senso, composizione e originalità, ma quel quid di leggerezza, ironia e stupore che permea tutto il dipanarsi di Karczeby è merce rara. Ed è lì che scatta il colpo di fulmine.

In breve: la parola Karczeby, in Polonia, indica un albero così ostinatamente attaccato con tutte le sue radici alla terra da rimanervi, come ceppo, anche dopo tagliato. Similmente vendono definiti quei contadini che sono tutt’uno con la terra che lavorano ed il luogo che abitano.

"Karczeby" (foto © Adam Panczuk)

L’autore li ammira, entra in empatia – polacco come loro – e li ritrae quali istintivi attori che incarnano il loro rapporto anche teatrale con Madre Terra, in un groviglio di stravaganza, misticismo, serietà, ironia e solennità. I personaggi (perché sono persone ma anche personaggi) rappresentano il loro legame con la natura vissuto da “alberi umani”.
La fattura del libro è, finalmente, sintesi affascinante di contenitore e di contenuto narrativo. Le immagini dialogano con i materiali, con la grafica e con i testi che raccontano – sulla stessa lunghezza d’onda – quella realtà forte e fragile ad un tempo.
Parlare di un libro è un’operazione concettualmente sbagliata: un libro va visto e va letto, va toccato e – perché no – annusato.
Dunque mi limito a dirvi che mi ha davvero ipnotizzato nella sua magnifica anomalia, e se volete procuratevelo.

"Karczeby" (foto © Adam Panczuk)

Fine della parentesi parigina, si torna in Italia, nell’Italia fotografica, in questo caso. E inizia il pianto: dopo l’annunciata chiusura dello Spazio Forma, ecco una petizione per salvare il Museo di Fotografia Contemporanea, unica istituzione di questo tipo, inaugurata con grandi promesse da un Ministro della Cultura qualche anno fa, ora in ginocchio e pronta per essere “rottamata” come molte altre cose importanti in questo Paese.

Ma tranquilli: avremo gli indispensabili cacciabombardieri F35, e poi – in fin dei conti – anche questi sono equipaggiati a bordo di ottime macchine fotografiche…

Twitter: @ilfototipo 

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

Qualcuno se l’è cavata. I bambini “sgarrupati” di Arzano, vent’anni dopo

next
Articolo Successivo

I Ds non ci sono più ma i debiti restano. In un libro i “panni sporchi della sinistra”

next