C’è un problemino mica da ridere con i leader vincenti. Ed è rappresentato dai seguaci entusiasti dei leader vincenti. Ora, la faccenda si presenta annosa e di difficile soluzione, tipo l’uovo e la gallina, per intenderci. Sarà meglio Grillo o i grillini? Meglio un leader populista per sua stessa ammissione o certi suoi zelantissimi seguaci? È una dura battaglia. Meglio Renzi o certi arditi renziani che sembrano pronti al salto nel cerchio di fuoco col coltello tra i denti? Anche qui, partita aperta.
Giù il cappello al vincitore, in ogni caso. Con una buona maggioranza anche tra gli iscritti al partito, Renzi si prende il Pd a pieno titolo. Giro di campo, bacio accademico, eccetera eccetera. Ma proprio nel giorno della consacrazione, ecco qualche tono un po’ sopra le righe dai suoi tifosi. Si sa, la curva è la curva, dagli ultras non ci si aspetta che agitino il galateo invece della bandiera. Però c’è un grandinare di livore che lascia perplessi. “Ora fate gli scatoloni!”, dicono beffardi alla leadership uscente. “Ci credo solo quando li vedo!”, ribatte qualcuno. E poi giù col repertorio noto: via il vecchiume, via i cattivi che arriviamo noi buoni. Via quelli che hanno distrutto il partito, ora ci siamo noi che lo facciamo vincere! Eccetera eccetera. Si capisce l’entusiasmo, ma un pochino, forse, anche no. I toni sono quelli degli schiavi liberati, dei primi cristiani che escono dalle catacombe e guardano il sole, comprensibilmente entusiasti e burbanzosi. Un filmone americano, dove i poveri ragazzotti yankee liberati dai terribili campi vietcong non vedono l’ora di imbracciare il mitra per fare giustizia e ripristinare i giusti valori. Ecco, amigos, calma. Renzi non è esattamente un reietto confinato in un campo di lavoro cinese che finalmente si libera dal giogo della dittatura. È il sindaco di una grande città, prima era il presidente di una grande provincia.
Il suo inner circle (scusate la parolaccia: vuol dire il suo entourage più stretto) è composto da amministratori, politici di lungo corso, presidenti di enti, finanzieri, imprenditori più o meno illuminati. Ha un correntone di oltre quaranta deputati dato in impetuosa crescita. Insomma, abbastanza confortevoli, come catacombe. Si aggiunga che ad alcuni dei suoi più zelanti interpreti capita di pisciare fuori dal vaso, tipo il finanziere Davide Serra che (testuale alla Leopolda) dice di sentirsi italiano di serie B, mentre i pensionati a mille euro al mese sarebbero italiani privilegiati di serie A. O la senatrice Nadia Ginetti che invoca come modello Margaret Thatcher (e perché non Reagan? Perché non Bush padre e figlio?).
Dunque, detto che tutto è giusto e regolare e persino prevedibile, e che il Pd da domani si chiamerà Renzi, suggerirei una ragionevole limatura di toni e parole, perché si rischia di somigliare pericolosamente ai craxisti della prima ora, quelli che si atteggiavano a schiavi liberati da chissà quale oppressione, destinati a costruire un luminoso, arrogantello e vendicativo futuro (poi s’è visto, tra l’altro…). Insomma, calma e gesso. Essere decisionisti è una gran bella cosa, ma dipende da cosa si decide. Cacciare i dinosauri è una gran bella cosa, purché chi li caccia non somigli a un più feroce, veloce, vorace e giovanile velociraptor. Insomma, saper vincere è importante come e più di saper perdere. Sicuramente Renzi lo sa. Se riuscisse a spiegare a certi suoi zelantissimi seguaci che battere Cuperlo, D’Alema ed Epifani non è come abbattere Bokassa sarebbe cosa buona e giusta.
Twitter: @AlRobecchi
il Fatto Quotidiano, 20 Novembre 2013