Ci sono uomini, scienziati, filosofi, artisti, filantropi, statisti, politici, santi, che lasciano un solco, nella storia dell’umanità. Ve ne sono che aprono una via. John Fitzgerald Kennedy, 35° presidente degli Stati Uniti, ucciso a Dallas 50 anni fa esatti, il 22 novembre 1963, ha certo lasciato un solco nella mia generazione e forse nella storia – ma i tempi della storia sono troppo lunghi per poterlo dire con certezza fin da oggi -, ma ha sicuramente aperto una via. Anzi, molte, centinaia di vie: solo in Italia, almeno 1.327. Vuol dire che un comune italiano ogni sei circa ha una via, o una piazza, intitolata al presidente della ‘crisi dei missili’ a Cuba con l’Urss nel 1962 e dell’avvio della fine della segregazione.

Kennedy è il nome straniero più diffuso nella toponomastica italiana: ci sono più vie, e piazze, Kennedy che non Napoleone, o Washington, o Lincoln, o Roosevelt, limitandosi a personaggi il cui solco nella storia è riconoscibile e la cui grandezza, magari controversa, è innegabile. Meglio fanno praticamente solo i ‘quattro del Risorgimento’, Cavour, Garibaldi, Mazzini e Vittorio Emanuele II – l’ordine è alfabetico -.

E Kennedy non è solo nome da strade, o da piazze: molte scuole italiane –una cinquantina- e pure esercizi pubblici e negozi sono intitolati al presidente ucciso. Il fenomeno acquista più rilevanza se si considerano le 96 vie o piazze ‘Fratelli Kennedy’, dove Robert – ucciso a Los Angeles nel 1968 – è associato nella memoria a Jack, e le cinque dedicate al solo Robert.

I dati vengono da una pubblicazione dell’Anci e della Fondazione Italia-Usa presentata a Roma oggi. La Lombardia è la regione dalla toponomastica più devota a Kennedy con 302 aree, il doppio della Puglia (151). Terza la Sicilia (132). JFK batte tre a uno il presidente cileno Salvator Allende, mentre la ‘top ten’ dei nomi stranieri delle nostre vie o piazze comprende poi Martin Luther King – la fine tragica è un buon viatico -, Carlo Marx, Anna Franck, Thomas Edison, Alessandro Fleming, Gandhi, Albert Einstein e Pablo Picasso.

Una testimonianza, e una conferma, se ve ne fosse bisogno, di come la parabola politica ed umana della meteora Kennedy abbia colpito gli italiani e, in particolare, la generazione del Dopoguerra, quegli adolescenti degli anni Sessanta –i Beatles e le minigonne, prima del Vietnam e del ’68- che vissero come una speranza e un modello quel presidente giovane e carismatico, con una moglie bella ed elegante. E l’alone di mistero intorno alle circostanze tragiche della sua uccisione contribuì al suo mito: Roma gli dedicò una piazza all’Eur appena cinque mesi dopo la sua morte, senza attendere, come vuole la legge, che trascorressero dieci anni.

Inutile misurare l’infatuazione kennedyana di quegli anni con le rivisitazioni storiche successive, con i ridimensionamenti veri o presunti del personaggio e dell’uomo, con le rivelazioni di scandali, amicizie compromettenti e tradimenti coniugali. Capita quasi a ogni generazione italiana d’entusiasmarsi per un presidente americano: dopo Kennedy, fu –in misura minore- Clinton e poi Obama. Clinton e Obama nel loro percorso hanno stemperato le passioni ed gli entusiasmi; gli spari di Dallas consegnarono Kennedy al mito. Nell’empireo della toponomastica.

 

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