In un recente incontro a Pittsburgh, un gruppo di esperti e studiosi di John F. Kennedy si sono trovati d’accordo nel criticare le conclusioni della Commissione Warren, che nelle 889 pagine del suo rapporto finale (1964) stabilì che Lee Harvey Oswald agì da solo il giorno in cui uccise a Dallas il presidente Usa. Tra i presenti c’era uno dei più eminenti sostenitori della tesi del complotto, il regista di JFK Oliver Stone, che in un appassionato intervento non se l’è presa tanto con chi continua a sostenere la tesi di “Oswald unico omicida”, quanto con l’assuefazione e l’oblio che ormai circondano uno degli eventi più importanti e tragici della storia americana. “La cospirazione del disinteresse è la più terribile di tutte”, ha detto Stone.
50 anni fa l’omicidio a Dallas. Con l’avvicinarsi del cinquantesimo anniversario della morte di Kennedy – il 22 novembre – gli Stati Uniti riflettono sull’eredità culturale e politica di uno dei loro presidenti più celebri – un presidente la cui salita alla Casa Bianca coincise con una fase storica di rilancio economico e sociale. Killing Kennedy, il film che ricostruisce le vite parallele di JFK e del suo assassino Oswald nei quattro anni che condussero all’omicidio di Dallas (tratto dal best-seller di Bill O’Reilly) ha totalizzato ascolti record domenica sera sul National Geographic Channel. Una serie di libri – tra i migliori, End of Days di James Swanson e If Kennedy Lived di Jeff Greenfield – ricostruiscono per l’ennesima volta vita, opere e tragedia finale del presidente. E tutti i maggiori network lanciano “speciali” dove il bianco e nero delle immagini si mischia alla nostalgia e al rinnovato dolore per quei giorni.
JFK, dall’esaltazione alle critiche. E’ comunque vero, come dice Oliver Stone, che la nota che sembra dominare, oltre le celebrazioni televisive ed editoriali, è quella di una certa indifferenza. La figura di JFK e la sua presidenza hanno perso negli ultimi tempi il carattere di promessa magica mantenuto per decenni e sono alla fine sfociati in una ben più sfumata, e realistica, considerazione di quegli anni. La morte del senatore Ted nel 2009, l’ultimo dei Kennedy ad avere un ruolo visibile e determinante nella politica americana, ha ulteriormente abbattuto il mito della “famiglia reale” Usa che per anni ha avuto libero corso su giornali, televisioni e nell’opinione pubblica. Sono altre, a questo punto, i Clinton, i Bush, i Paul, le famiglie che riescono a collegare politica, visioni sociali e aspirazioni di vita.
Un esempio abbastanza significativo di questo ribaltamento è un’inchiesta uscita alcuni giorni fa sul “New York Times”, che mette a confronto i modi in cui i libri di testo hanno raccontato in questi anni la figura di JFK a milioni di giovani americani. Si passa dall’esaltazione quasi incondizionata degli anni Sessanta e Settanta alle critiche anche esplicite a partire dagli anni Ottanta. Il testo per le superiori del 1975 di Clarence Ver Steeg e Richard Hofstadter, A People and a Nation, esaltava l’azione di Kennedy a favore del disarmo nucleare e raccontava, in modo piuttosto in accurato, che durante la sua presidenza “bus, hotel, motel e ristoranti vennero desegregati” (in realtà gran parte della legislazione a favore dei diritti civili venne approvata sotto il suo successore Lyndon Johnson). Nel 1982 un’altra storica, Mary Beth Norton, mostrava invece la “considerevole mancanza di vigore” con cui Kennedy perseguì una politica anti-segregazione e biasimava il presidente per la folle gestione della crisi missilistica con l’Unione Sovietica. Secondo la Norton, l’eredità più forte di Kennedy fu “un’enorme espansione militare che accelerò la sfida con i russi”.
Restano i tanti misteri della morte. La “storia d’amore” tra l’America e il suo presidente è dunque finita tempo fa e la tesi del giovane e tragico eroe che nei suoi 1000 giorni alla Casa Bianca rilanciò l’idea di un’America giovane e progressista non ha retto a quanto successo dopo: l’enorme e tragico sforzo militare del Vietnam e la sua ingloriosa conclusione; il declino economico americano e le sfide alla superpotenza Usa; l’integrazione difficile che nemmeno l’elezione del primo presidente afro-americano è riuscita a far avanzare. Quello che resta oggi – e gran parte dei libri usciti in questi anni e gli stessi “speciali” trasmessi dalle TV americane lo rivelano – è dunque soprattutto il mistero della morte, l’incapacità a distanza di cinquant’anni di ricostruire in modo certo e definitivo quanto successo a Dallas il 22 novembre 1963. Ancora recentemente T. Jeremy Gunn, direttore esecutivo dell’“Assassination Records Review Board” (l’agenzia istituita nel 1992 con il compito di raccogliere e pubblicare tutti i documenti governativi relativi all’assassinio di JFK) ha detto di “non essere un complottista”, ma di “non sapere cosa successe quel giorno”.
“Nelle storie senza finale subentra l’assuefazione”. Gunn si riferisce ovviamente alle tante, forse troppe, contraddizioni e incongruenze che avvolgono l’assassinio di Kennedy e le indagini successive. James Joseph Humes, uno dei medici responsabili dell’autopsia, rivelò soltanto nel 1996 che una parte consistente del suo rapporto fu bruciata e riscritta da lui stesso “perché le pagine originali erano macchiate del sangue di Kennedy”. Non si è mai saputo se il nuovo rapporto riflettesse in modo esatto quello originale. Altre incongruenze riguardano le foto scattate al momento dell’autopsia, che secondo alcuni testimoni non sono quelle conservate ora agli Achivi Nazionali (Sandra Spencer, responsabile del servizio fotografico di allora, dice di ricordare che il cadavere di Kennedy era composto e privo di ematomi; mentre quello che appare dalle foto degli Archivi è coperto di sangue e con un grosso buco in testa). E sotto la lente di ingrandimento, in questi anni, sono finiti i rapporti di Oswald con l’Fbi, un suo viaggio a Mexico City, oltre all’eterna questione di quante pallottole vennero sparate contro il presidente (secondo lo “United States Select Committee on Assassinations”, gli spari furono quattro, non tre, e un libro del 1992, Mortal Error, ipotizza che almeno un colpo – quello che trapassò il cranio – venne accidentalmente sparato da un agente dei Servizi Segreti che si trovava alle spalle di Kennedy).
“Non so quello che successe ed ora è troppo tardi per scoprirlo”, afferma Jeremy Gunn e le sue parole sono davvero il triste sigillo sul caso. Forse è per questo che l’anniversario dei cinquant’anni suscita interesse ma non vera partecipazione. Kennedy e la sua presidenza si sono trasformati da racconto del sogno americano in una spy story di cui non si intravvede soluzione. E alla fine nelle storie senza finale subentra, come lamenta Oliver Stone, l’assuefazione.