L’autodichia crea nella città-Stato della Repubblica italiana una condizione di autonomia amministrativa e contabile pressoché assoluta. Neppure la Corte dei Conti può metter becco sui bilanci, sulle spese, sulle retribuzioni di chi vive all’ombra degli organi costituzionali. Dove i regolamenti interni e le decisioni degli uffici di presidenza sono legge assoluta. Così, compensi e appalti fanno notizia sporadicamente. Perché se ne parli deve sempre succedere qualcosa, deve aprirsi un “caso”. Nel 2010 Emma Bonino guidò l’opposizione al rifiuto di accesso, opposto da Renato Schifani all’ispettore del lavoro che voleva entrare a palazzo per vedere i contratti di lavoro. “Se non fosse stato per lei – spiega la radicale Irene Testa – neppure si sarebbe saputo, visto che i verbali del Consiglio di Presidenza sono singolarmente lacunosi, come più volte lamentato anche in questa legislatura dalla senatrice questore dei 5 stelle Laura Bottici“.
Ed è appena accaduto, in effetti, con la polemica sul superfunzionario della Camera, Ugo Zampetti. La scorsa settimana c’è stata una bufera intorno al suo mandato che non scade mai. Un ordine del giorno del vicepresidente Luigi di Maio (M5S) ha tentato – senza successo – di reintrodurre un limite al mandato che nell’autodichia, tra un regolamento e l’altro, è diventato a vita. Zampetti è li dal 1999, 16 anni, e oramai sicuro candidato a succedere a se stesso ben oltre l’età pensionabile. Un problema non solo e non tanto per i 600mila euro l’anno di compenso (400 lordi più indennità di funzione) ma perché è il capo assoluto dell’amministrazione della Camera, dove l’autodichia impera.
Nessuno, al di fuori degli stessi parlamentari, può sindacare su come impiega quel miliardo di risorse messe come posta nel bilancio dello Stato per garantirne il funzionamento senza dipendere da altri organi. Il segretario generale di Montecitorio, di conseguenza, è una delle figure più potenti della burocrazia pubblica italiana. Molto meno visibile è la base dell’iceberg, cioè tutti quelli che stanno sotto “Mr 600mila euro”. Quante volte si è parlato del barbiere della Camera che guadagna più di un chirurgo? Ma chi lo decide? Ancora una volta l’ufficio di presidenza, applicando i propri regolamenti interni che – grazie all’autodichia – nella cittadella assumono il valore assoluto di legge e si applicano a “insindacabile giudizio”. Ma non è un dipendente pubblico? Macché, è un dipendente della Camera, o del Senato, o del Quirinale. E questo vuol dire che le regole che valgono per tutti non valgono per lui (e per altre migliaia di dipendenti), nel bene e nel male. Nel bene, per loro, significa stipendi e rivalutazioni decisamente superiori a quelli, per omologhe funzioni, riscontrabili in altre amministrazioni dello Stato. Esempi: un operatore tecnico (centralinista, elettricista e pure il barbiere…) entra con uno stipendio intorno ai 30mila euro, dopo 10 anni arriva a 50mila e a fine carriera anche a 136mila euro l’anno. Le progressioni sono decise a insindacabile giudizio di una commissione interna. Una fotografia che nulla ha a che fare con i lavoratori del pubblico impiego.
In cambio, mal glie ne e incolse, i dipendenti della città Stato (Camera, Senato, Quirinale, Csm, etc.) devono vedersela con l’altra faccia dell’autodichia: l’impossibilità, in caso di controversia, di rivolgersi a un giudice del lavoro. Perché anche per loro la cittadella è inviolabile. “Di fatto barattano diritti per privilegi. Se si volessero rivolgere all’ispettorato del lavoro non lo potrebbero fare”, spiega la Testa. Perché il loro “giudice naturale” non è quello ordinario, ma una commissione contenziosi composta da 3 senatori in carica, un dipendente eletto ed uno scelto dal Presidente (in pratica dal segretario generale) che valuta la fondatezza del ricorso. “Ci sono casi emblematici di dipendenti ingiustamente declassati, uno mobbizzato e uno licenziato perché ha partecipato a un gay pride (nel 2004, il dipendente era Dario Matiello, ndr)”. Qualcuno ha provato a ottenere ragione fuori dal Parlamento, finora senza successo anche per l’opposizione degli uffici di presidenza. Un caso emblematico è quello del dipendente del Senato Piero Lorenzoni che chiedeva di essere giudicato da un vero giudice. Il dipendente si è rivolto alla Cassazione che il 19 ottobre scorso ha ravvisato la fondatezza dei dubbi di costituzionalità dell’autodichia delle Camere, perché esclude una categoria di cittadini dalla tutela giurisdizionale in ragione di un elemento (l’essere dipendenti del Senato) che non giustifica un trattamento differenziato (art. 3). E ancora per violazione dell’art.111 sul giusto processo, visto che si celebra nelle Camere dinanzi ad una delle parti in causa e non davanti ad un giudice terzo ed imparziale. E qui viene il bello. Perché la Cassazione ha rimandato alla Corte Costituzionale e lì Camera e Senato, su indicazione degli uffici di presidenza, si sono subito costituiti contro il dipendente. E poco importa se a capo dei due uffici spiccano esponenti del centro sinistra. “Grasso (Pd) e Boldrini (Sel) – accusa la dirigente radicale Testa – hanno preferito far quadrato sull’autodichia e rivendicare l’extraterritorialità rispetto al giudice ordinario. Dalla seconda e terza carica dello Stato, ci si sarebbe aspettati un atteggiamento diverso e meno corporativo. Evidentemente l’intenzione dei presidenti di Camera e Senato, non è quella di rendere il parlamento un’istituzione trasparente e rispettosa del principio di legalità bensì di mantenere intatti privilegi, immunità e prerogative non rispettosi dei principi Costituzionali”.
Anche gli appalti nell’autodichia degli organi costituzionali sono da sempre una nebulosa impenetrabile e in espansione: l’ultima relazione della Corte dei conti riferisce di una spesa superiore ai 250 milioni di euro da parte delle amministrazioni centrali dello Stato. Su questo versante il principio dell’autonomia e indipendenza si è tradotto in un sempre più massiccio ricorso alla secretazione che consente all’amministrazione di bypassare il codice dei contratti pubblici e procedure a chiamata diretta, limitando così la concorrenza dei contraenti, la pubblicità dei contratti stessi, l’imposizione dell’Iva sugli importi, la rendicontazione finale e il controllo contabile successivo.
Importi, preventivi, preliminari e pagamenti restano dunque inconoscibili. Il tutto anche quando – come non si stanca di ricordare la Corte nella sua relazione – il ricorso alla secretazione è palesemente infondato e nulla ha a che fare con i presupposti di sicurezza dello Stato. Tra gli altri, il rifacimento dell’aula dei gruppi parlamentari della Camera per cui sono stati spesi 14 milioni di euro. Su alcuni appalti c’è stata guerriglia dentro e fuori la città-Stato. In particolare sulla mensa della Camera finita al centro di un contenzioso amministrativo. Il senatore Luigi Li Gotti (Idv) segnalò che la ditta Romeo era vincitrice di una causa, decisa dai giudici interni alle Camere, nonostante l’inchiesta penale allora in corso. Il sottosegretario di allora (governo Berlusconi) Elio Vito scrisse un monumento all’autodichia: quel principio di garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza della Camera, risponderà, gli impediva anche solo di rispondere all’interrogazione. (è qui da aggiungere il pezzo che dice peter Anche il silenzio, nella città-stato edificata sulla cosa pubblica, è d’oro.