Il 19 novembre, l’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna ha votato la legge istitutiva della Ausl unica della Romagna, che di fatto unifica le quattro aziende preesistenti (Ravenna, Rimini, Cesena e Forlì), per una popolazione complessiva di oltre 1,1 mln di abitanti e di 2 mld di spesa corrente. Un colosso che intende rappresentare una risposta al progressivo definanziamento della sanità pubblica senza rinunciare, almeno negli auspici di tutti, a conservare elevati standard di qualità e di servizi.
L’operazione, avviata su proposta della Regione e con il consenso dei territori agli inizi del 2012, ha conosciuto una forte accelerazione un anno più tardi, quando all’idea iniziale di giungere all’unificazione a valle di un’analisi rigorosa e condivisa della realtà romagnola, dei progetti comuni, degli obiettivi e delle risorse effettivamente disponibili, l’Assessorato alla Sanità ha sostituito una sorta di politique d’abord: prima la “scatola aziendale”, poi si vedrà. La “scatola” è ora confezionata, e non è molto diversa dalle altre presenti sul territorio regionale: a caratterizzarla è una direzione generale unitaria e una grande Conferenza sociale e sanitaria territoriale, composta dai 75 comuni romagnoli.
Alcuni giorni fa, i comuni romagnoli hanno deciso che le principali deliberazioni previste dal regolamento della Conferenza sociale e sanitaria dell’Ausl unica saranno assunte su una base largamente rappresentativa, per evitare che uno dei quattro territori fondatori possa sentirsi escluso dal processo. Il bello comincia adesso. La legge regionale che si occupa della rete ospedaliera dovrebbe approdare in Assemblea fra non molto. Lì si scoprirà qualcosa di più circa l’immagine che la politica e la tecnocrazia regionali hanno elaborato sul futuro della rete in Romagna. Poi ci sarà, verosimilmente, una lunga transizione da gestire, dato che, dai bilanci ai sistemi informatici, alla stessa natura giuridica del nuovo “oggetto” Ausl unica, le certezze non sono molte. Ciò provoca, comprensibilmente, sconcerto e sbandamento nel personale e negli stessi dirigenti preoccupati del loro avvenire.
Il tema sanitario è molto complesso e di difficile decifrazione: muove tanti soldi, come i rifiuti, e i politici vogliono tenerci le mani sopra. Però anche i professionisti fanno la loro parte, orientando opinione pubblica e ceto amministrativo locale. Poi ci sono i tecnici, chiamati a far quadrare i conti di aziende assai sui generis: talvolta giocano la partita secondo le regole, talaltra sono dei docili strumenti nelle mani del potente patrono di turno.
Infine vengono i cittadini, che di questo dibattito capiscono poco o nulla, ma molto delle file al pronto soccorso o delle attese per visite, esami e interventi. I sindaci, che pure hanno per legge responsabilità di sanità pubblica, sono ai margini di questa pletora di attori (non sono quasi mai degli specialisti e perciò sono facilmente influenzabili), e lo saranno probabilmente ancor più nell’Ausl unica, se non sapranno giocare una partita trasparente di elaborazione di un disegno territoriale che sappia coniugare i bisogni primari dei loro amministrati con una visione realmente sub-regionale.
La mia impressione è che questo sia un problema tutto loro. Alla Regione interessa accorciare la filiera di comando e basta, in fondo. Il ceto politico regionale tende, in Italia, all’autoreferenzialità, alimentato da una burocrazia che lo sostiene nella pretesa capacità di leggere per schemi una società in frantumi, disgregata e spesso nichilista o iper-individualista. Per questo, un’operazione come l’Ausl è una grande sfida e un grande azzardo: una sfida, perché l’esperimento ha una sua teorica fondatezza; un azzardo, perché le persone chiamate a realizzarlo dovrebbero essere l’espressione rigorosa e competente di una comunità in ascesa, desiderosa di mettere le mani sul proprio futuro. E non è questo il nostro caso.