Sentenza di primo grado: la pena più alta è a 21 anni e mezzo. Dieci anni per Nevio Coral, ex primo cittadino di Leinì, e 7 per Bruno Trunfio, che faceva parte della giunta di Chivasso. Le assoluzioni sono state 38
Si è chiuso con 37 condanne (di cui 23 condanne per mafia) e 38 assoluzioni il primo grado del processo Minotauro, sulla presenza della ‘ndrangheta in Piemonte. Condannati anche i due esponenti politici, Nevio Coral, ex sindaco di Leinì, e Bruno Trunfio, ex assessore ai lavori pubblici del Comune di Chivasso durante la giunta guidata da Andrea Fluttero (Pdl) e vicesegretario dell’Udc del comune più grande dell’hinterland torinese. Rinviati alla Procura per approfondimenti invece gli atti su Fabrizio Bertot, ex sindaco di Rivarolo Canavese, oggi europarlamentare, che non era indagato nel processo. La Procura aveva chiesto la condanna di 74 imputati, per un totale di più di 730 anni di reclusione. Le condanne si sommano alle 58 già disposte con il rito abbreviato e ai 20 patteggiamenti.
Riconosciuta l’associazione mafiosa per Vincenzo Argirò, considerato un esponente di spicco del crimine e condannato a 21 anni e 6 mesi di reclusione. Condannato a 14 anni Salvatore Demasi, indicato come il “padrino” di Rivoli: era stato individuato dalla Procura come uno dei principali interlocutori dei politici citati nelle carte degli investigatori anche se non indagati. Sposato con la figlia di Sebastiano Romeo, alias “Staccu”, ritenuto fino alla sua morte capo locale di San Luca, e cognato di Giuseppe Giorgi alias “U capra”, inserito nell’elenco dei latitanti più pericolosi, Demasi era entrato in contatto con 7 soggetti politici, “politici e/o amministratori scafatissimi, calabresi essi stessi, che di Rivoli e dei Rivolesi (De Masi compreso) sanno tutto e di più” secondo le parole del procuratore capo Gian Carlo Caselli, che nella requisitoria li aveva elencati tutti. Si tratta dell’ex sindaco di Rivarolo (sciolto per mafia) Fabrizio Bertot, l’ex parlamentare Idv Gaetano Porcino, il consigliere regionale Antonino Boeti, l’assessore di Alpignano Carmelo Tromby, l’ex parlamentare Pd Domenico Lucà, il sindaco di Ciriè Francesco Brizio Falletti e Giovanni Porcino, consigliere comunale a Torino, per la cui elezione Demasi si interessa per “non dispiacere al padre Gaetano”.
Condannato per concorso esterno in associazione mafiosa a 10 anni di reclusione, all’interdizione dai pubblici uffici e alla libertà vigilata per almeno 3 anni, Nevio Coral, ex sindaco di Leinì, imprenditore molto influente nel
Canavese e sponsor elettorale dell’ex assessore regionale alla sanità, Caterina Ferrero. La sua posizione si era aggravata nel corso del processo: le vicende che lo vedono protagonista erano già state al centro dello scioglimento del Comune di Leinì nel marzo del 2012.
Condannato a 7 anni anche Bruno Trunfio, costruttore edile, ex assessore ai lavori pubblici del Comune di Chivasso, il Comune più grande dell’hinterland torinese. La sua attività politica e il suo ruolo nell’elezione dell’ex sindaco De Mori (che si è dimesso dopo gli arresti), è stata una delle ragioni per cui il Comune ha rischiato il commissariamento. Su di lui esisteva già il pronunciamento del tribunale della Libertà e poi della Cassazione, che ne avevano stabilito la scarcerazione. Trunfio aveva addirittura richiesto che per la sua posizione venisse sentita durante il processo il ministro Annamaria Cancellieri, perché spiegasse le ragioni del mancato scioglimento di Chivasso.
Derubricata invece l’aggravante di mafia per Antonino Battaglia, ex segretario comunale di Rivarolo Canavese, comune sciolto per infiltrazioni mafiose, e dalla Procura di voto di scambio politico-mafioso, per aver sponsorizzato l’elezione di Bertot alle Europee del 2009 presso i padrini calabresi. Per lui è stata riconosciuto solo il reato di scambio elettorale semplice con la conseguente condanna a 2 anni di reclusione.
Nonostante le numerose assoluzioni, quella di oggi resta una sentenza storica perché dimostra giudiziariamente, ancorché in primo grado, la presenza della ‘ndrangheta in Piemonte, i suoi affari e i suoi rapporti con la politica. Un’inchiesta che ha disegnato la mappa delle presenze mafiose nella provincia di Torino – almeno 360 gli affiliati stimati dalla Procura –, fotografando quattro generazioni di ‘ndranghetisti che si sono succedute e hanno messo radici sul territorio piemontese.