Adesso ci si è messo anche il tifone. L’efficiente ufficio del porto cargo di Busan ci annuncia ritardi imprecisati per tutti i bastimenti in arrivo a causa del passaggio di famigerato Haiyan. Del nostro non si hanno notizie certe, figurarsi, ma chiaramente l’attracco è destinato a slittare rispetto alla data annunciata da Pedro, il 25 novembre. “How many days?” “We don’t know, sir. Nobody knows”. Per una volta che eravamo in anticipo noi, è in ritardo lui. La legge di Murphy funziona con i treni, figuriamoci se non funziona con i cargo internazionali. Ma ci sarà poi davvero, la Rabmobile, su quel cargo? La speranza è l’ultima a morire, e siamo consapevoli che la vera protagonista del nostro viaggio è proprio lei, ma bisogna guardare in faccia la realtà. Per aspettare il cargo, dovremmo fermarci per non si sa quanti giorni in questo porto della Corea del Sud, gremito di motel e di bettole cinesi dove si impastano ravioli al vapore freschi 24 ore su 24.
Ci siamo arrivati dal ferry boat che in quattro ore collega Busan alla città giapponese di Fukuoka. Quando siamo partiti abbiamo visto il Giappone dal mare ed è stato come vederlo per la prima volta. Una famiglia di isole, isolotti e semplici scogli disposti su una tavola che, forse suggestionati dalla Rabmobile, ci sembrava color verde Shetland (foto 1).
Abbiamo ripensato al giardino di Ryoan, dove ognuna delle 15 pietre si sente al posto giusto – e per una pietra essere al suo posto vuol dire tanto. Vuoi vedere che anche il Giappone, in fondo, è un giardino Zen? Questo spiegherebbe molte cose, a cominciare dall’inutilità di riuscire a spiegarle.
Oltre il giardino, dopo quattro ore di navigazione, è apparso il vero inizio del continente, la costa della Corea del Sud, illuminata come riesce solo al nucleare. Al porto di Busan era appesa una cartina delle Asian Highways in via di progettazione (foto 2), che abbiamo osservato con una certa golosità.
L’A1 prevede un tracciato di circa 20 mila chilometri da Seoul a Sofia. Pietro pensava quanto sarebbe bello percorrerli a bordo della sua R4. Ma a parte il fatto che andrebbero preventivati almeno altri sei mesi di cammino, c’è da superare l’insormontabile barriera della Corea del Nord. Da lì non si passa, questo è poco ma sicuro. E allora, con la morte nel cuore, abbiamo convenuto di lasciare la Rab al suo destino. Pedro ha rassicurato il suo omonimo. Era già d’accordo con lo zio di far ritornare l’auto a Setubal; poi si occuperà lui stesso di riportarla a Comporta, e di trovarle un garage in attesa del nostro ritorno. Nessun pericolo di non trovarlo, ci assicura, perché il ristorante dove lavora è sempre aperto. La cosa ci è suonata strana, considerato lo scarno movimento che avevamo notato già alla fine di agosto; ma abbiamo preferito non indagare oltre.
Sul grintoso KTX da Busan a Seoul sfrecciamo a più di 300 chilometri all’ora in religioso silenzio. Ormai è ufficiale: non si parla più nessuno. Né coi vicini di poltrona ma nemmeno al telefonino. Tutti incollati allo schermo. Attraversiamo una campagna punteggiata di colli, un paesaggio e una luce che hanno qualcosa in comune con il nostro Appennino. Le città esibiscono enormi condomini e grattacieli che testimoniano il miracolo economico coreano, unico Paese della storia recente che non ottiene più aiuti umanitari dalla comunità mondiale, ma è passato dalla parte di chi li dà. A Seoul ci sono tre gradi e un numero impressionante di persone che sciamano per l’enorme stazione ferroviaria dove l’alfabeto latino resta un’ipotesi molto vaga.
Recuperiamo i maglioni di emergenza che ci eravamo procurati in Uruguay e così infagottati ci dirigiamo nella zona di Gangnam, il quartiere grande come Milano celebrato dal famoso tormentone rap (foto 3) e dove abbiamo affittato un appartamento per meno di 40 dollari al giorno, all’apparenza un affarone.
I coreani sono completamente diversi dai giapponesi; stessa disciplina millimetrica, stesso senso del collettivo, ma con qualcosa di più duro e marziale: l’energia sintetica e sottovuoto spinto bene espressa dal Gangnam Style. Quando il metro esce in superficie per attraversare un fiume gigantesco e avviluppato da una tangenziale a nove code, cominciamo a sospettare di esserci sbagliati sul Giappone, scambiandolo per il futuro.
Impressione confermata in pieno, l’indomani, dalla spedizione per fare la spesa e cucinarci un piatto di spaghetti. Usciti alle 11 del mattino dal nostro seminterrato con unica finestra all’altezza dei tubi di scappamento (ecco perché costava solo 40 dollari), siamo rientrati esausti a pomeriggio inoltrato. Per quanti chilometri avessimo percorso lungo i marciapiedi delle autostrade cittadine (12 corsie auto, ma zero piste ciclabili), non eravamo riusciti a trovare un solo supermercato (per non parlare di negozio di alimentari); in compenso, empori di cosmetici, di elettronica, Starbucks e altri caffè clone ogni cento metri; alla fine, su suggerimento di un locale, abbiamo dovuto ripiegare su un supermarket virtuale situato in una stazione del metro; si fotografano col telefonino le immagini del prodotto, si inviano per email e si aspetta la conferma per consegna a domicilio.
Sì, potrebbe essere che il futuro abbia intenzione di trasferirsi in questa megalopoli perfetta per un film di Leos Carax; una città Matrix che replica se stessa all’infinito e ingloba tutto, montagne incluse, dove le foglie gli alberi ingialliscono ma non cadono e sembrano passate al photoshop (foto 4), dove la tecnologia non è più un mezzo ma il vero fine.
Lungo la via le persone ti vengono addosso perché non guardano la strada, ma il display del computer. Se chiedi un indirizzo, che in Oriente è sempre un rebus di suo, si mettono a digitare freneticamente su display e GPS. Anche se siamo a due passi, anche se abitano proprio lì. A Seoul, in questa capitale dai grattacieli e dal Pil mostruosi, qui, dove la Samsung ha osato sfidare la Apple, guarderesti negli occhi il tecno-medioevo prossimo venturo che da noi si profila all’orizzonte. Finiremo così, frenetici e sintetici come il Gangnam Style? Orwell aveva previsto molte cose, ma non che i prigionieri non potessero più vivere senza le loro amate catene.