Mentre il 76enne Dino Piero Giarda si prepara a scendere nell’arena della Banca Popolare di Milano dove la cordata dell’82enne Lamberto Dini ha deciso improvvisamente di mollare il colpo, anche la Consob interviene nella guerra interna dell’istituto milanese fresco di dimissioni forzate dell’intero consiglio di gestione con l’uscita del presidente Andrea Bonomi e del consigliere delegato ad interim Davide Croff. Dimissioni che però avranno validità effettiva solo il prossimo 21 dicembre, data della convocazione dell’assemblea per il rinnovo del consiglio di sorveglianza. In attesa delle nuove nomine i gruppi di potere intestini sparano le ultime munizioni: da un lato l’ex ministro ministro per i rapporti con il Parlamento, appoggiato da parte dei sindacati nazionali. Dall’altro un pezzo dei sindacati locali (gli ex Amici della Bpm) guidati da Raffaele Mincione, secondo azionista della banca con una quota del 7 per cento, sui movimenti societari del quale, come riporta il Corriere della Sera, la Consob ha appena avviato delle verifiche. A quest’ultimo gruppo faceva capo la candidatura di Dini che però, sabato 23 jnovembre, ha deciso all’improvviso di mollare il colpo. ”Sono giunto alla conclusione, d’intesa con Raffaele Mincione, che non sussistono più le condizioni e i presupposti che giustifichino un nostro diretto coinvolgimento nella vicenda Bpm”, ha detto l’ex presidente del Consiglio Lamberto Dini, che consiglia lo stesso Mincione a “non presentare una lista a nome del suo fondo”.
In una nota Dini ha spiegato che“quelle forze interne che per settimane avevano manifestato interesse e sostegno per la presentazione da parte nostra di una lista maggioritaria che avesse come obiettivo governare il necessario cambiamento, pur mantenendo la struttura partecipativa della banca, non sono più presenti”. “Pertanto, anche se sollecitato, non desidero essere coinvolto in nessuna lista per il consiglio di sorveglianza della banca… dal momento che le quattro rappresentanze sindacali nazionali e locali – aggiunge l’ex presidente del Consiglio – si sono coalizzate avendo come punto di convergenza il mantenimento della struttura cooperativa della banca, contraddicendo così agli indirizzi ed alle direttive formulate, anche recentemente, dalle autorità monetarie di vigilanza, dalle quali, anche per la mia storia personale, giammai mi distaccherei”.
Non solo. “Alcuni di essi sembrerebbero anche sostenere che un aumento del capitale della banca non sia necessario. Se così fosse, anche su questo essi andrebbero contro quanto richiesto dalle autorità preposte e significherebbe tornare indietro su posizioni ultraconservatrici, non sostenibili. E’ cosi lecito pensare che queste posizioni – mantenimento della esistente struttura cooperativa senza aumento di capitale – siano solo enunciazioni elettorali per ottenere il consenso dei votanti, da dimenticare poco dopo le elezioni stesse”, ha aggiunto Dini. “Crediamo sia invece necessario riconoscere e dichiarare fin d’ora che, pur salvaguardando la struttura partecipativa della banca, un cambiamento della governance sia indispensabile per garantire il successo della sottoscrizione dell’aumento di capitale da effettuare nei prossimi mesi e nella prospettiva della trasformazione della banca in società per azioni: oggi la Bpm sembra aver perso un sicuro accesso al mercato. Percorrere la strada di un aumento di capitale da emettere sul mercato senza un preventivo cambiamento nella governance, che dia, ad esempio, un maggior peso agli azionisti soci di capitale – spiega l’ex presidente del Consiglio – sembrerebbe destinato all’insuccesso. Si pensa forse che l’aumento di capitale possa essere sottoscritto dai soci dipendenti e pensionati oppure dalle segreterie sindacali? Senza il rafforzamento richiesto della base di capitale, la banca andrebbe incontro, penso inevitabilmente, a provvedimenti di rigore con il rischio di perdere la propria indipendenza”. “E questo che si vuole? La Banca Popolare di Milano – conclude Dini – per la sua storia, non merita questo amaro destino”.
Sullo sfondo restano i retaggi del recente passato. Come il caso delle consulenze commissionate da Bonomi allo studio legale Chiomenti per una spesa complessiva di circa 1, 1 milioni di euro su cui la Consob lo scorso 30 ottobre ha chiesto chiarimenti alla banca. In un audit interno del 25 settembre scorso si legge che l’importo è stato versato per un parere legale nell’ambito del progetto Ovidio (quello con cui Bonomi ha tentato invano di trasformare la banca cooperativa in società per azioni) e per attività legate alla gestione dei rapporti con le Autorità di Vigilanza e i lavori di preparazione per la realizzazione del piano industriale.
Ma qual è il punto? Il problema è che uno dei soci dello studio legale in questione è Carlo Croff, fratello del consigliere delegato di Bpm e uomo di fiducia di Bonomi, Davide Croff, ancora dentro il consiglio di gestione. Non è solo una questione di coincidenze. Si potrebbe trattare di una violazione del regolamento. Nella lettera in cui la Commissione di Giuseppe Vegas chiede conto delle consulenze, infatti, si fa esplicita menzione alla disciplina sulle operazioni con le cosiddette “parti correlate”, cioè in conflitto d’interesse. Nella casistica dei soggetti sottoposti a particolare vigilanza, rientrano anche gli “stretti familiari”, come in questo caso.
E, quindi, in base alla normativa Bpm avrebbe dovuto seguire una precisa procedura all’insegna della trasparenza, “al fine di assicurare condizioni di correttezza nell’intero processo di realizzazione delle operazioni con parti correlate”. Ovvero, prima dell’approvazione della consulenza, sarebbe stato suo obbligo richiedere un parere a un comitato di amministratori indipendenti non esecutivi e non in conflitto d’interessi, com’è prassi. Giudizio mai conseguito. Nella lettera inviata alla Banca, infatti, la Consob scrive che l’avvocato Carlo Croff potrebbe essere considerato uno “stretto familiare”. Pertanto, “ai sensi della norma indicata”, si fa richiesta alla Banca di “precisare se l’avv. Carlo Croff sia stato qualificato come parte correlata” e “fornire una descrizione puntuale del contratto di consulenza concluso con lo studio Chiomenti, soffermandosi sugli elementi principali dello stesso con particolare riferimento al corrispettivo previsto e alla sua ragione economica”.
A rispondere alla Consob è stato l’avvocato Carlo Gagliardi, uscito nel giugno 2012 proprio dallo stesso studio Chiomenti dopo 6 anni di servizio e oggi segretario generale di Bpm. Nella sua replica del 14 novembre scorso si legge che il controvalore delle consulenze a suo parere non rientra nella disciplina sulle operazioni con parti correlate “trattandosi di operazioni di importo esiguo” in quanto il totale di 1,1 milioni di euro è stato fatturato nell’arco di tre anni, con un picco di 687mila euro nel solo 2012. “Il dott. Davide Croff ha confermato la non sussistenza di possibili ‘rapporti di influenza’ fra lo stesso consigliere e l’avv. Carlo Croff”, rivendica poi Gagliardi. Una sorta, quindi, di autocertificazione della parte in conflitto di interessi sullo stessa ipotesi contestata. Non solo. L’incarico è stato conferito – puntualizza ancora Gagliardi – non al fratello Carlo, ma allo studio Chiomenti, dentro cui lavorano altri 280 avvocati. Mera coincidenza, quindi, secondo il legale: “Per quanto attiene alle procedure in materia di parti correlate, il suddetto incarico è stato conferito non all’avv. Carlo Croff, bensì allo studio Legale Chiomenti, non censito quale parte correlata”. Quindi è la Consob che ha peccato di malizia nel sollevare l’addebito o è Bpm che ha violato la normativa?