Una tassa nata male, cresciuta peggio e che oggi potrebbe addirittura minare i conti pubblici, se venisse bocciata dalla Consulta. È la Robin Hood Tax, introdotta nel 2008 dal governo Berlusconi, a parole per restituire ai cittadini degli extraprofitti dell’energia, in realtà nulla impedisce di scaricarla sui consumatori. Nel 2011 ha prodotto un gettito di quasi 1,5 miliardi: un tesoretto a cui l’erario non pare più in grado di rinunciare.
“È una tassa bellissima”, commentava nell’estate 2008 l’allora ministro Tremonti, alla vigilia del varo dell’addizionale Ires del 5,5% sulle imprese petrolifere, elettriche e del gas con almeno 25 milioni di fatturato. L’obiettivo era “tassare un po’ di più i petrolieri per dare a chi ha bisogno, ossia burro, pane e pasta”. Non un euro del gettito è mai andato al fondo per la social card. In compenso nel biennio 2009-10 il Tesoro ha incassato circa un miliardo e mezzo, anche grazie a un aumento dell’aliquota al 6,5% arrivato a stretto giro. Nell’estate 2011, poi, il salto di qualità: con la Manovra bis l’aliquota sale ancora al 10,5% per il triennio 2011-13 e viene estesa anche a operatori più piccoli, con fatturato di almeno 10 milioni e imponibile di 1, alle reti e alle fonti rinnovabili.
Immediato è stato l’effetto sul gettito, balzato nel solo 2011 a oltre 1,45 miliardi, nonostante l’uscita dal perimetro della tassa di molte aziende, il cui imponibile era nel frattempo sceso sotto il milione. Per colpa della crisi o in esito a riassetti societari ad hoc – in odore di elusione, ammoniva il direttore dell’Agenzia delle Entrate Befera. Da qui l’ultimo ritocco, del governo Letta: col primo decreto del Fare il fatturato minimo è sceso ancora a 3 milioni e l’imponibile a 300 mila euro. Motivazione ufficiale: ridurre le bollette elettriche. Ma la riduzione è ancora da quantificare e l’attuazione è in ritardo di tre mesi. Il maggior gettito è principalmente destinato ad altre partite: dalla riduzione della tassa sulle barche di lusso al rinvio di quella sulle transazioni finanziarie. “Riduzione delle tariffe elettriche” era anche il titolo dato da Tremonti all’articolo della manovra che inasprì la Robin Tax nel 2011. Ma come fa una maggiore tassazione dei fornitori a ridurre i prezzi per i consumatori?
In teoria la Robin Tax si distingue dalle altre tasse perché la norma istitutiva ne vieta il trasferimento sui prezzi, incaricando l’Autorità per l’energia di controllare. Ma non è prevista alcuna sanzione in caso di violazione. E i meccanismi di formazione dei prezzi, nell’energia sono così complessi che dimostrare un’avvenuta traslazione è praticamente impossibile. Fino a oggi l’authority ha sì ammesso di avere qualche sospetto, rilevando aumenti dei margini forse (o forse no) dovuti a un trasferimento sui prezzi, ma non ha mosso contestazioni. Nei pochi casi in cui ci ha provato – per un pugno di piccoli operatori nel 2010 – ha visto le proprie decisioni rovesciate dal Tar.
La preoccupazione del legislatore, di ieri e di oggi, pare principalmente che la Robin Tax si paghi. Col decreto di riforma della Pubblica amministrazione, convertito nei giorni scorsi, il governo pare rinunciare all’ipocrisia, ridimensionando drasticamente il monitoraggio dell’Autorità: solo controlli a campione e solo su aziende medio- grandi. Più che sufficiente per una funzione laboriosa e di dubbia utilità. Con queste cifre in ballo il gettito dell’addizionale è vitale per lo Stato. E da tempo il Tesoro accarezza l’opportunità di mantenerla al 10,5 per cento anche dopo oltre il 2013. E se invece venisse di colpo meno?
Da quasi tre anni sulla Robin Tax pende presso la Consulta un giudizio di legittimità costituzionale. A promuoverlo è stata la commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia su ricorso di un rivenditore locale di prodotti petroliferi. Le motivazioni del ricorso sono, tra l’altro, che l’addizionale sarebbe discriminatoria, colpendo solo un settore; che mancherebbero i presupposti per il ricorso al decreto legge; e che l’esistenza di extraprofitti non sarebbe dimostrata. Gli esperti di diritto non sono concordi sulla possibilità che simili argomenti possano convincere la Consulta. Dopo due anni e otto mesi il caso pare ancora lontano da una definizione. È uno degli ultimi giudizi incidentali del 2011 ancora pendenti e tutt’oggi non ha un’udienza, prima fissata a gennaio scorso, poi spostata a marzo e quindi rinviata sine die. Alimentando l’impressione che per la Corte sia diventata una patata bollente. “Si presenteranno grossi problemi per le casse dello Stato se la Robin tax fosse giudicata incostituzionale”, ha riconosciuto Befera. E lo spasmodico ballo della coperta degli ultimi mesi su Imu, Iva e cuneo fiscale non fa che confermarlo.
da Il Fatto Quotidiano del 13 novembre 2013
Economia
Energia, per Letta c’è la bomba Robin Tax. A rischio un tesoretto da 1,5 miliardi
Introdotta da Tremonti nel 2008 e presentata come tassa sui petrolieri, in realtà sta finendo nelle bollette dei cittadini. Sull'imposta pende il giudizio della Consulta: se fosse ritenuta incostituzionale, sarebbe un problema per le casse dello Stato
Una tassa nata male, cresciuta peggio e che oggi potrebbe addirittura minare i conti pubblici, se venisse bocciata dalla Consulta. È la Robin Hood Tax, introdotta nel 2008 dal governo Berlusconi, a parole per restituire ai cittadini degli extraprofitti dell’energia, in realtà nulla impedisce di scaricarla sui consumatori. Nel 2011 ha prodotto un gettito di quasi 1,5 miliardi: un tesoretto a cui l’erario non pare più in grado di rinunciare.
“È una tassa bellissima”, commentava nell’estate 2008 l’allora ministro Tremonti, alla vigilia del varo dell’addizionale Ires del 5,5% sulle imprese petrolifere, elettriche e del gas con almeno 25 milioni di fatturato. L’obiettivo era “tassare un po’ di più i petrolieri per dare a chi ha bisogno, ossia burro, pane e pasta”. Non un euro del gettito è mai andato al fondo per la social card. In compenso nel biennio 2009-10 il Tesoro ha incassato circa un miliardo e mezzo, anche grazie a un aumento dell’aliquota al 6,5% arrivato a stretto giro. Nell’estate 2011, poi, il salto di qualità: con la Manovra bis l’aliquota sale ancora al 10,5% per il triennio 2011-13 e viene estesa anche a operatori più piccoli, con fatturato di almeno 10 milioni e imponibile di 1, alle reti e alle fonti rinnovabili.
Immediato è stato l’effetto sul gettito, balzato nel solo 2011 a oltre 1,45 miliardi, nonostante l’uscita dal perimetro della tassa di molte aziende, il cui imponibile era nel frattempo sceso sotto il milione. Per colpa della crisi o in esito a riassetti societari ad hoc – in odore di elusione, ammoniva il direttore dell’Agenzia delle Entrate Befera. Da qui l’ultimo ritocco, del governo Letta: col primo decreto del Fare il fatturato minimo è sceso ancora a 3 milioni e l’imponibile a 300 mila euro. Motivazione ufficiale: ridurre le bollette elettriche. Ma la riduzione è ancora da quantificare e l’attuazione è in ritardo di tre mesi. Il maggior gettito è principalmente destinato ad altre partite: dalla riduzione della tassa sulle barche di lusso al rinvio di quella sulle transazioni finanziarie. “Riduzione delle tariffe elettriche” era anche il titolo dato da Tremonti all’articolo della manovra che inasprì la Robin Tax nel 2011. Ma come fa una maggiore tassazione dei fornitori a ridurre i prezzi per i consumatori?
In teoria la Robin Tax si distingue dalle altre tasse perché la norma istitutiva ne vieta il trasferimento sui prezzi, incaricando l’Autorità per l’energia di controllare. Ma non è prevista alcuna sanzione in caso di violazione. E i meccanismi di formazione dei prezzi, nell’energia sono così complessi che dimostrare un’avvenuta traslazione è praticamente impossibile. Fino a oggi l’authority ha sì ammesso di avere qualche sospetto, rilevando aumenti dei margini forse (o forse no) dovuti a un trasferimento sui prezzi, ma non ha mosso contestazioni. Nei pochi casi in cui ci ha provato – per un pugno di piccoli operatori nel 2010 – ha visto le proprie decisioni rovesciate dal Tar.
La preoccupazione del legislatore, di ieri e di oggi, pare principalmente che la Robin Tax si paghi. Col decreto di riforma della Pubblica amministrazione, convertito nei giorni scorsi, il governo pare rinunciare all’ipocrisia, ridimensionando drasticamente il monitoraggio dell’Autorità: solo controlli a campione e solo su aziende medio- grandi. Più che sufficiente per una funzione laboriosa e di dubbia utilità. Con queste cifre in ballo il gettito dell’addizionale è vitale per lo Stato. E da tempo il Tesoro accarezza l’opportunità di mantenerla al 10,5 per cento anche dopo oltre il 2013. E se invece venisse di colpo meno?
Da quasi tre anni sulla Robin Tax pende presso la Consulta un giudizio di legittimità costituzionale. A promuoverlo è stata la commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia su ricorso di un rivenditore locale di prodotti petroliferi. Le motivazioni del ricorso sono, tra l’altro, che l’addizionale sarebbe discriminatoria, colpendo solo un settore; che mancherebbero i presupposti per il ricorso al decreto legge; e che l’esistenza di extraprofitti non sarebbe dimostrata. Gli esperti di diritto non sono concordi sulla possibilità che simili argomenti possano convincere la Consulta. Dopo due anni e otto mesi il caso pare ancora lontano da una definizione. È uno degli ultimi giudizi incidentali del 2011 ancora pendenti e tutt’oggi non ha un’udienza, prima fissata a gennaio scorso, poi spostata a marzo e quindi rinviata sine die. Alimentando l’impressione che per la Corte sia diventata una patata bollente. “Si presenteranno grossi problemi per le casse dello Stato se la Robin tax fosse giudicata incostituzionale”, ha riconosciuto Befera. E lo spasmodico ballo della coperta degli ultimi mesi su Imu, Iva e cuneo fiscale non fa che confermarlo.
da Il Fatto Quotidiano del 13 novembre 2013
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Roma, 18 mar. (Adnkronos) - "Vogliamo il pilastro europeo dell'Alleanza atlantica e non lo delegheremo alla Francia e alla Gran Bretagna". Lo ha affermato il capogruppo di Forza Italia al Senato, Maurizio Gasparri, nella dichiarazione di voto sulle risoluzioni presentate sulle comunicazioni del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in vista del prossimo Consiglio europeo. "Per avere i granai pieni -ha aggiunto- bisogna avere gli arsenali pieni, la difesa è la premessa della libertà e della democrazia".
Bruxelles, 18 mar. - (Adnkronos) - Le sedici aziende dell’Alleanza “Value of Beauty”, lanciata a febbraio 2024, hanno presentato a Bruxelles uno studio commissionato a Oxford Economics sull’impatto socioeconomico del settore. Il Gruppo L’Oréal, Kiko Milano, Beiersdorf, Iff, e altri grandi marchi dell’industria vogliono inserirsi nello spiraglio aperto dalla Commissione europea per favorire la semplificazione normativa in vari ambiti, e per chiedere un dialogo strategico sul futuro del settore, come già successo per agricoltura e automotive.
Il settore guarda con attenzione alle proposte su una legge europea vincolante per le biotecnologie e alla strategia per la bioeconomia, che la Commissione si impegna a presentare entro la fine dell’anno. Ma guarda con attenzione anche agli sviluppi nelle relazioni commerciali in Occidente alla luce della recente entrata in vigore dei dazi di Washington sull’import dall’Unione europea.
“Cinque delle sette più grandi aziende del settore hanno la loro sede nell’Ue”, ha sottolineato l’amministratore delegato del Gruppo L’Oréal, Nicolas Hieronimus.
A Bruxelles i sedici membri dell’Alleanza chiedono politiche per la produzione sostenibile di ingredienti e la formazione di personale per sbloccare il potenziale del settore. Un aspetto legato, secondo l’amministratore delegato di Kiko Milano, Simone Dominici, all’impatto positivo che la cura del corpo e dell’estetica ha sull’autostima e sulla salute mentale dei consumatori. Aspetti non trascurati dallo studio dell’Oxford Economics presentato all’ombra dei palazzi delle istituzioni europee. Il rapporto mostra che la spesa dei consumatori nell’Ue per i prodotti di bellezza e cura della persona ha superato i 180 miliardi di euro e dato lavoro a oltre tre milioni di persone, un numero che supera il totale della forza lavoro presente in 13 Stati membri dell’Ue. Troppi anche gli oneri per l'industria della cosmetica che rendono necessaria una revisione della direttiva sulle acque reflue. Forte dei 496 milioni di euro generati ogni giorno e dei 3,2 milioni di posti di lavoro, la cordata dei grandi nomi dell’industria della bellezza chiede che tutti i settori che contribuiscono ai microinquinanti nelle acque siano ritenuti responsabili, in linea con il principio “chi inquina paga”.
I riflettori dell’Alleanza, che guarda anche agli interessi di tutti gli attori della filiera - dagli agricoltori ai vetrai, importanti nella catena del valore quanto le case di fragranze - sono rivolti in primis sull’attesa revisione del regolamento Reach (Regulation on the registration, evaluation, authorisation and restriction of chemicals), che regolamenta le sostanze chimiche autorizzate e soggette a restrizione nell’Unione europea. L’Alleanza chiede che a questa iniziativa, annunciata nel 2020 come parte del pacchetto sul Green deal, si aggiunga anche una revisione del regolamento sui prodotti cosmetici.
L’appello ha come obiettivo la riduzione degli oneri amministrativi e lo stimolo all'innovazione, senza sacrificare l’approccio basato sul rischio per la salute e la responsabilità per la tutela dell’ambiente. Trasmette ottimismo l’iniziativa della Commissione di considerare delle esenzioni per alcune imprese colpite dalla direttiva della diligenza dovuta che imponeva oneri considerati sproporzionati alle piccole e medie imprese, la colonna portante del settore.
“Vogliamo impiegare più tempo alla sostenibilità, piuttosto che alla rendicontazione amministrativa”, è stato l’appello degli amministratori delegati durante la conferenza stampa che ha preceduto gli incontri istituzionali al Parlamento europeo, tra cui quello con la presidente dell’istituzione, Roberta Metsola. Lo studio presentato dimostra che una parte consistente della cura per la sostenibilità ambientale passa anche dalla cosmetica. L’Oréal ha già annunciato che entro il 2030 il 100% della plastica utilizzata nelle confezioni sarà ottenuta da fonti riciclate o bio-based.
Roma, 18 mar. (Adnkronos) - "Mandare soldati in Ucraina mentre ci sono i bombardamenti è una pazzia e l'Italia non farà questa scelta". Lo ha affermato il capogruppo di Forza Italia al Senato, Maurizio Gasparri, nella dichiarazione di voto sulle risoluzioni presentate sulle comunicazioni al Senato del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in vista del prossimo Consiglio europeo.
Roma, 18 mar. (Adnkronos) - "Gli inglesi sono usciti dall'Europa e adesso ci convocano una volta a settimana, facessero domanda per rientrare nell'Unione europea". Lo ha affermato il capogruppo di Forza Italia al Senato, Maurizio Gasparri, nella dichiarazione di voto sulle risoluzioni presentate sulle comunicazioni al Senato del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in vista del prossimo Consiglio europeo.
Roma, 18 mar. (Adnkronos) - "Dei Servizi segreti non si parla nell'Autogrill, si parla nel Copasir, io all'Autogrill ci vado a comprare il panino". Lo ha affermato il capogruppo di Forza Italia al Senato, Maurizio Gasparri, nella dichiarazione di voto sulle risoluzioni presentate sulle comunicazioni al Senato del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in vista del prossimo Consiglio europeo.
Roma, 18 mar. (Adnkronos) - "Da oggi sono autorizzato a dire che la Meloni non smentisce l'utilizzo di intercettazioni preventive nei confronti di un giornalista che attacca il Governo. È una cosa enorme, che ha a che fare con la dignità delle Istituzioni. Se non vi rendete conto che su questa cosa si gioca il futuro della libertà, allora sappiate che c'è qualcuno che lascia agli atti questa frase, perchè quando intercetteranno voi, in modo illegittimo, con i trojan illegali, saremo comunque dalla vostra parte per difendere il vostro diritto di cittadini, mentre voi oggi vi state voltando dal'altra parte". Lo ha affermato Matteo Renzi nella sua dichiarazione di voto sulle risoluzioni sulle comunicazioni al Senato del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in vista del prossimo Consiglio europeo.
"Giorgia Meloni va al Consiglio europeo senza una linea, senza sapere da che parte stare, senza aver avuto il coraggio di rispondere a quella frase che lei stessa aveva detto: 'come diceva Pericle la felicità consiste nella libertà e la libertà dipende dal coraggio'. Se la felicità e la libertà dipendono dal coraggio, Giorgia Meloni -ha concluso l'ex premier- non è felice, non è libera".
Roma, 18 mar. (Adnkronos) - "Proprio perché sono una patriota metterò questa nazione in sicurezza, perché come dice la nostra Costituzione difendere la Patria è un sacro dovere del cittadino". Lo ha affermato il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, nella replica al Senato sulle comunicazioni in vista del prossimo Consiglio europeo.