Il mercoledì era il giorno della fiera. Nell’ampio rettilineo che conduceva alle case gialle della periferia si disponeva un clamore antico, mi sembrava di guadagnare qualcosa che atteneva a una verità recondita, finanche ad un segreto esistenziale che non avevo ancora realizzato. Dalle bancarelle gli uomini urlavano la bontà del loro commercio. Era tutto così primitivo, e questo mi piaceva. Con i compagni delle case ci vedevamo al solito posto. Massimo non c’era, sempre in giro con i suoi impicci. Le strade erano bianche, splendevano abbagli inauditi sui tetti di lamiera. Le motorette correvano sullo stradone, lasciandosi dietro un terribile afrore e un rumore insolente. I poveri sono neri, diceva Romina, con spregio. I poveri non hanno colori. Ne racconterò ampiamente nel prossimo romanzo, vorrei mantenermi fedele a quella medesima laconicità, perché non era disperazione o solitudine soltanto, era molto peggio, era il feltro seppellito di ogni sussulto, il tentativo persino di risorgere era stato soppiantato da un ameno cinismo che serviva a contare i giorni e dimenticarli.
Romina era già vecchia a sedici anni, io non era da meno, la nostra vecchiaia era cagionata da una stolta superbia, dalla certezza di aver visto tutto e aver vissuto appena tuttavia. La polvere si appiccicava addosso noiosamente; la gente invece era nera, erano più neri, diceva Romina. Li vedi quelli delle case? Sono più sporchi e più brutti degli altri, chiosava con disprezzo. Mi domandavo chi fossero in fondo gli altri. E la domanda è sempre stata la medesima, ancora oggi lo è. Ogni tanto vedevamo Cetty, lei era una donna vera, gli uomini perdevano la testa, noi (Romina, i compagni delle case) l’ammiravamo seduti sul colle di lamiera, sul monte dell’impudicizia, sui fianchi della roccia degli sperduti. I nomi dell’ingiuria: quanto colore, e non mi sono mai adeguata, mai capito il dialetto, maledizione, il mio stupido accento anonimo era la ragione che mi impediva di essere a parte di un segreto, di essere dentro veramente le cose, le complicità.
Arrivò il mio compleanno, Massimo non arrivava mai invece, non ho voluto spegnere le candeline, la cera colava sulla panna, Romina aveva apparecchiato la tavola nella cucina della madre, quarto piano, case popolari di Mazzarruna, periferia a nord est di Siracusa. Potevi festeggiarlo con i tuoi, mi disse per congedarmi, aveva bevuto e voleva solo dormire. Le luci delle fabbriche piombavano sulle acque buie verso l’orizzonte. Era tutto costipato, stretto, non c’era tempo, era sempre troppo tardi, ed io così vecchia già allora.