Circa 1.400 aziende in tutta Europa hanno scelto di adottare principi per sviluppare l'economia dei beni comuni. Regole che non condannano il profitto, ma lo raggiungono nel rispetto dell'ambiente e delle comunità. Alcune realtà imprenditoriali, inoltre, hanno adottato meccanismi democratici al loro interno per prendere decisioni tra vertici e dipendenti
È possibile creare un modello di sviluppo economico e sociale a misura d’uomo, per superare quello attuale, estremo e selvaggio, che ha generato la crisi, ridotto in povertà milioni di persone e violentato l’ecosistema? Secondo diverse realtà del mondo dell’economia, della cooperazione e delle scienze psicologiche e sociali, sì: vivere in un società fondata sui principi della human economy è possibile e ormai indispensabile, basta seguire le regole dell’economia dei beni comuni. Dove il profitto non viene demonizzato, ma acquista un valore diverso rispetto alla concezione classica. Alla base di questo decalogo c’è la difesa di beni condivisi come l’acqua, l’ambiente o le tecnologie. Ma anche la coesione sociale, la solidarietà e la sussidiarietà, l’istruzione, la cultura e la salute. Questa forma di economia non ubbidisce unicamente alle decisioni imposte dal mercato, ma cerca di valorizzare la partecipazione dei dipendenti attraverso il dialogo e il confronto, costruendo modelli partecipativi all’interno delle stesse aziende
L’economia dei beni comuni è stata teorizzata da filosofi, economisti e sociologi. Il premio Nobel per l’economia, Elinor Ostrom, sosteneva che le comunità organizzate possono essere in grado di regolamentare efficacemente l’uso dei beni comuni a vantaggio di tutti. Se riescono a darsi delle norme e a sanzionare i trasgressori; se il loro sviluppo non è ostacolato dallo Stato o dalle corporation, le comunità auto-organizzate sono in grado di ramificarsi e adattarsi ai mutamenti, riuscendo così a salvaguardare nel tempo i beni comuni (o commons). Al contrario, la loro privatizzazione comporta lo spreco di risorse preziose, gravi inefficienze e dinamiche non sostenibili. Ma anche la monopolizzazione dei commons da parte dello Stato – secondo la Ostrom – sarebbe dannosa. Eccessiva burocrazia, privilegi, corruzione: queste le conseguenze.
Per l’imprenditore sociale californiano, Peter Barnes, profeta dell’utopia post-capitalista, l’economia di mercato espropria e mette a beneficio di pochi privilegiati i beni di tutti: sia quelli culturali, sia quelli sociali o naturali. Il sistema capitalistico inoltre non si preoccupa – secondo Barnes – degli interessi delle comunità. Le aziende, quindi, si appropriano gratuitamente, o per pochi spiccioli, dei beni comuni ma scaricano sulla società i costi ambientali e sociali. Per superare questo sistema, Barnes propone una terza via di sviluppo: no profit, autonoma dal mercato e dai governi che dovrebbe avere la proprietà formale dei commons e gestirli in un’ottica di lungo periodo a vantaggio delle comunità. Per l’imprenditore statunitense le strutture più adatte a gestire i beni comuni sono le fondazioni, perché non hanno scopo di lucro. “Sono un uomo d’affari, – dice di sé Barnes – credo che la società debba realizzare iniziative di successo, con profitto. Ma so anche che le azioni finalizzate al profitto hanno effetti indesiderati, quali inquinamento, degrado, disuguaglianza, ansia, confusione”.
Ma questi principi possono essere trasferiti in contesti che devono produrre ricavi e lavoro, o rimangono teorie accademiche e idee strampalate di guru new age? In tutta Europa sono circa 1.400 – sparse tra Austria, Germania, Spagna e Italia – le aziende che puntano su un modello di sviluppo rispettoso dei principi che cercano di “umanizzare l’economia”. Forse ancora troppo poche, sicuramente in aumento rispetto alle 500 di un anno e mezzo fa. Per lo psichiatra e psicoterapeuta cileno Claudio Naranjo, una delle personalità più autorevoli nel dibattito sui diversi modelli economici, “bisogna che l’attuale sistema crolli, solo così può esserci una salvezza. Ma per cambiare veramente, bisogna modificare il nostro modo di pensare, è necessario acquistare nuovi valori: queste aziende lo stanno già facendo”.
Tra i casi portati a esempio nel corso di un recente convegno milanese sul tema organizzato dall’associazione Sat Italia, ci sono gruppi medio – grandi come Loacker, azienda dolciaria che ha deciso di rimodellare la propria struttura interna, passando da un modello piramidale a un’organizzazione circolare, dove le scelte vengono prese in maniera democratica e dove ogni settore sente di appartenere ad un’unica visione. “In questo modo – spiega il direttore marketing Hand Peter Dejakum – ognuno dei nostri collaboratori è parte integrante del processo decisionale ed è consapevole di rivestire un ruolo indispensabile. La persona è il soggetto principale del sistema produttivo: così si possono affrontare le sfide della competività che ci aspettano”.
Ma non ci sono solo i grandi contesti come l’azienda di Bolzano, con centinaia di dipendenti e un fatturato annuo che sfiora i 270 milioni di euro l’anno, anche piccole realtà a conduzione familiare hanno scelto di cercare di creare ricchezza in modo più responsabile. C’è un hotel incastonato sulle Dolomiti, a Corvara in Alta Badia, altro caso portato a esempio da Sat Italia. Lo gestice Michil Costa, insieme alla famiglia e ad una decina di collaboratori, da una vita. Il signor Costa ha osservato, anno dopo anno, lo stupro delle valli in nome di un turismo selvaggio che per inseguire il profitto si è accaparrato la licenza di distruggere e inquinare. Costa ha deciso di opporsi a questo scempio, puntando a trasformare l’Hotel La Perla in un esempio che faccia da traino per altri albergatori e per tutti coloro che lavorano nel settore. In questo hotel i clienti non sono clienti, ma ospiti. A loro si offrono i prodotti che la stagione regala e solo quelli provenienti dal territorio. Se arrivano da lontano a bordo di auto, dovranno pagare una piccola tassa in base alle emissioni di CO2 che sono servite per raggiungere l’hotel: metà della cifra è pagata dall’azienda, metà dall’ospite.
Tutto è devoluto alla Costa Family Foundation Onlus che finanzia la costruzione di strutture per l’infanzia in Tibet e in Uganda. Anche qui le decisioni si prendono insieme, proprietari e dipendenti che hanno un orario di lavoro ridotto a parità di stipendio. E non esistono disparità abissali di retribuzioni: il rapporto è 1 a 4. Tutto questo non intacca i guadagni: “La nostra azienda – dice Costa – con 100 posti letto, fattura 5.700 euro, e ha un reddito netto di 725.000. Solo rispettando le nostre tradizioni e valorizzando la nostra terra possiamo salvaguardare la bellezza che si traduce in ricchezza”.