Da ragazzo, nelle campagne della Puglia, ho fatto un’estate un’esperienza di lavoro alle prese con l’“acinello”. Si trattava di liberare i grappoli ancora acerbi dell’uva da tavola dagli acini più piccoli per ottenere grappoli più belli e floridi. Pur essendo un lavoro tipicamente da mani femminili, il mio amico ed io fummo ugualmente ingaggiati, alle cinque del mattino, dal “caporale” di turno nella piazza di un paese, il quale ci avrebbe poi portato e riportato ogni mattina sul e dal luogo di lavoro con il suo furgone. Le compagne di lavoro erano allora donne di tutte le età, ma comunque del luogo.
Il fenomeno della globalizzazione dei mercati e dei flussi migratori dal sud del mondo, ha modificato negli anni questa esperienza in peggio come denunciato ripetutamente in Tv. Più di recente, rispetto a quei ricordi giovanili, ho avuto peraltro modo di fare esperienze professionali nel mondo della GDO (grande distribuzione organizzata), preferita quotidianamente dai consumatori eppure spesso criticata aspramente dai nostalgici dei bei tempi andati, la quale sta prendendo posizioni molto efficaci contro il fenomeno dello sfruttamento di lavoratori extracomunitari nei campi, avendo dalla sua il potere dei grandi numeri.
Le imprese non vanno in paradiso: quando compiono azioni civilmente meritorie lo fanno in realtà per un vantaggio di lungo termine come la tutela della propria reputazione o il consenso dei clienti. Il rispetto di valori etici è coerente quindi con una visione lungimirante del business, se in presenza di un pubblico ben informato. E laddove una stampa più indipendente da condizionamenti politici ed economici denunci pratiche contrarie al rispetto della persona o dell’ambiente, la grande impresa non può far finta di nulla, ma è costretta a prendere posizione. Il fenomeno dello sfruttamento di lavoratori extracomunitari che, a seconda delle stagioni e delle colture, riguarda regioni meridionali come la Sicilia, la Calabria, la Campania e la Puglia sta quindi portando le catene della GDO del nord Europa a boicottare le produzioni che non rispettino decorose condizioni di lavoro. E pare che il messaggio sia molto più efficace e convincente delle tutele sinora offerte dalle Istituzioni, spesso pavide o distratte, se non compiacenti.
Ho l’impressione che un’opinione pubblica sempre più interessata a sapere dove e come si produce ciò che si porta in tavola, possa indurre i big della distribuzione a usare argomenti molto convincenti verso i produttori al fine di ottenere il rispetto della persona e dell’ambiente in cui si produce il cibo. Il boicottaggio selettivo delle produzioni irrispettose dei diritti della persona o della tutela dell’ambiente, potrebbe quindi configurare un doloroso, ma necessario disincentivo economico per intere aree, finalizzato al rispetto del lavoratore o del consumatore laddove le istituzioni e le comunità che rappresentano avessero fallito per incapacità o colpevole omissione come quando si è preferito nascondere certe vergogne ambientali, per anni, sotto il tappeto.
Le Istituzioni dovrebbero poi eliminare i disincentivi economici che quotidianamente producono attraverso leggi, regolamenti, inutile burocrazia, tasse e contributi superiori ai Paesi concorrenti che rappresentano una giustificazione comunque intollerabile di pratiche spregiudicate. Più che il riconoscimento di uno stato di crisi finanziato immancabilmente dal contribuente, dovrebbero promuovere il merito degli operatori economici nel perseguire la qualità delle produzioni e il rispetto dei lavoratori e dell’ambiente.