Francesco Guccini, Quell’ultima volta: «Quando è stata quell’ultima volta? Ti sembrava durasse per sempre quell’amore assoluto e violento. Quando è stato che è finito in niente? Perché è stato che tutto si è spento?». Il suo ultimo disco si intitola L’ultima Thule. Ultimo.
È il tuo ultimo disco, Francesco. Quando è stato che hai deciso che questo doveva essere il tuo ultimo disco? Quando è stato che hai scritto, quella volta, Lui e lei, Autogrill, Incontro. E tutte le altre, che fanno abbracciare gli amici, cantare, quando è estate ed è notte, tra i granelli di sabbia. Granelli troppo lievi, per resistere alle furie del tempo. Granelli troppo lievi per saldare gli amori appena iniziati. È un lampo: volano via, come sospinti da quello scirocco, quello che cantavi nella tua canzone su Adriano Spatola, lo scrittore dell’oblio. Cosa facevi pochi istanti prima la scrittura di Ti ricordi quei giorni? Con quale ritmo le rughe interiori solcavano il tuo cuore, come succede a noi, umani? Quante volte i tuoi occhi hanno cantato? Non sei un juke-box, sei un cantautore. Non sei una star, sei un cantautore. Non sei avvelenato, oggi, nell’autunno pavanese. Cantavi: «Come vorrei avere i tuoi occhi, spalancati sul mondo come carte assorbenti». Hai cantato la fine del mondo e l’ode dolce, alla Edgar Lee Masters, per gli annegati. Hai cantato lo smog, l’odore acido del whisky, nelle notti devastate. La Primavera di Praga, il tempo e i suoi dispetti, quando un altro giorno è andato. Hai cantato Salinger, Gozzano. E le radici, le piccole città. Le osterie di fuori porta, le ragazze che se ne vanno, la vita quotidiana, e le piccole storie ignobili, il dolore solitario del pensionato, le canzoni quasi d’amore.
Tu, Francesco, hai raccontato nuovi mondi, mondi antichissimi, e quelli ignoti. Libera nos domine. Lager. Gulliver. Ricordo quella sera, ricordo mille sere a chiacchierare di nubi, nei labirinti oscuri delle case, dietro allo specchio segreto d’ogni viso. Cencio il Nano, Anna, le domande consuete. E quante ancora, tu, Samantha, che scendi le scale di un policentro attrezzato comunale, mentre Milano muore di malinconia, tu, Francesco e la tua canzone delle colombe e del fiore, tu e la primavera del 1959, è bella l’illusione di un momento solo, tu Francesco e la morte del Che, tu Francesco e quel giorno a Piazza Alimonda, tu Francesco e Omero, Dante, Foscolo, Kavafis, il canto lieve, il canto saggio, quello dolcissimo e violento. Tu, Francesco, e quell’ultima volta che hai cantato, davanti al pubblico. Io c’ero, come si dice.
Una mia amica, Marta, l’altro giorno mi ha regalato un libro per ragazzi. Si intitola Culodritto e altre canzoni (Mondadori). L’hai dedicato a tua figlia, Teresa Guccini. Ci sono le tue canzoni, illustrate, benissimo, da Alessandro Sanna. Lo tengo in mano da qualche giorno. Mi sento un po’ vecchio un po’ bambino. Mi verrebbe da dirti, Francesco: «Mi piaccion le fiabe, raccontane altre». Non lo farò. È atto autentico, è atto artistico, quello di scrivere l’ultimo disco e intitolarlo così, proprio come volevi, anni fa. Siamo qui ad ascoltarlo, in queste notti spente, le notti senza luce, le notti senza buio, le notti italiane.