«Stavo pensando che una vita è solo la storia di tutto ciò cui prestiamo attenzione», dice Patrick, dopo aver raccontato la sua, in Lieto fine di Edward St.Aubyn (Neri Pozza, traduzione di Luca Briasco), quinto e ultimo romanzo di una saga che, in America e in Inghilterra (e adesso anche da noi), è stata giustamente definita un capolavoro. Il termine «capolavoro» oggi suona un po’ eccessivo, richiama perfino facili ironie, ma ha ancora un valore, basta non usarlo quasi mai. Per I Melrose vale la pena giocarsi il bonus. Vent’anni di lavoro, intanto: in un’epoca di instant book segnano la differenza.
Mentre la gente si affanna dietro ai capricci del mercato, c’è uno scrittore inglese che insegue in modo maniacale le sue ossessioni come Proust, e nessuno lo sposta da lì. Naturalmente questa tenacia, quasi patologica, non basta. Lo scarto lo segna una scrittura composta che scompone, puntuale fino a dare le vertigini. Nonostante la ricercatezza, non è mai maniera: se si legge la saga in modo autentico, ci si accorge che non esistono parole più sincere. E che, arrivati alla fine, I Melrose sono proprio questo: una struggente, terribile e costosissima, ricerca di verità. Più di mille pagine di verità, senza sconti, senza pause. Qualcosa che, in termini così estremi, è raro incontrare.
Lieto fine è ambientato durante il funerale della madre del protagonista, Eleanor, un’ereditiera fragile e alcolizzata, schiacciata da un lontano senso di colpa per la sua ricchezza che la porta a inserire nel rapporto sadomasochista con il marito anche gli stupri che lui infligge al figlio, fin dall’infanzia. Una donna che, in vecchiaia, invece di riscattarsi, tradisce ulteriormente Patrick, regalando l’intero patrimonio e la villa in Francia a un imbroglione new age, capace di manipolare le sue debolezze. Fra battute pungenti, degne della migliore tradizione britannica, St.Aubyn in realtà mette in scena un requiem tragico e imponente, semmai mozartiano, dove lo humour è solo una sfumatura. La sua ironia non è mai sarcasmo («il sarcasmo implica una sola cosa: disprezzo»), viene usata piuttosto come una forma di distacco, necessaria a guardare l’esistenza dall’alto, un attimo prima di penetrarla a fondo.
Con questo romanzo conclusivo, in fondo, St. Aubyn seppellisce i quattro precedenti. Non a caso, proprio durante la cerimonia, muore l’ultimo esponente del mondo dei Melrose, amico storico della famiglia, esemplare perfetto di un’aristocrazia inglese – cinica, sadica, arrogante e presuntuosa – capace solo di generare rovina. Patrick, che ha passato la vita a scontare la violenza di questa mentalità, anche fisicamente, è stanco di affidarsi a un sistema consolatorio che finisce per «estendersi a ogni armadietto dei medicinali, a ogni letto e a ogni bottiglia in cui si fosse imbattuto».
Droghe, alcol, sesso: «una galleria di surrogati» che lo ha portato solo in una clinica psichiatrica, a un passo dal suicidio. Toccato il fondo, non può che risalire. Adesso esige una libertà più profonda, oltre «la tensione fra dipendenza e indipendenza». E può raggiungerla solo ragionando in modo nuovo sul suo passato («Non pensare a qualcosa è il modo più sicuro per continuare a subirne l’influsso»). La chiave forse esiste e non è il perdono, ma sostituire al senso di impotenza la «compassione per l’impotenza stessa», compresa quella dei suoi genitori.