Oggi precari, domani poveri. La previsione arriva dall’Ocse, secondo cui, in Italia, “l’adeguatezza dei redditi pensionistici potrà essere un problema” per le generazioni future e “i lavoratori con carriere intermittenti, lavori precari e mal retribuiti sono più vulnerabili al rischio di povertà durante la vecchiaia”. Nel suo rapporto sulle pensioni, l’organizzazione di Parigi accusa il metodo contributivo e l’assenza di pensioni sociali, che attenuano “il rischio di povertà degli anziani”. Infine, si osserva nella relazione, “il pilastro pensionistico privato non è ancora ben sviluppato. In seguito all’introduzione del meccanismo d’iscrizione automatica ai piani pensionistici privati nel 2007, la loro copertura raggiungeva solo il 13,3% della popolazione in età lavorativa alla fine del 2010″. E se sulle pensioni l’Italia non viaggia bene, le cose non vanno meglio per quanto riguarda i salari. In media, nel nostro Paese, nel 2012 un lavoratore ha percepito 28.900 euro, pari a 38.100 dollari: una cifra che si attesta al di sotto dei 42.700 dollari medi dell’area Ocse. Impietoso, in particolare, il confronto con le retribuzioni svizzere (94.900 dollari) e norvegesi (91 mila dollari).
L’Ocse, poi, giudica “relativamente bassa” l’età effettiva alla quale uomini e donne lasciano il mercato del lavoro in Italia: 61,1 anni per gli uomini e 60,5 per le donne, contro una media Ocse rispettivamente di 64,2 e 63,1 anni. Si considerano bassi anche i tassi di partecipazione al mercato del lavoro dei lavoratori appartenenti alla fascia di età 55-64 (anche se sono migliorati passando dal 27,7 % al 40,4 % tra il 2000 e il 2012). Tuttavia, prosegue l’organizzazione, “l’aumento dell’età pensionabile non è sufficiente per garantire che le persone rimangano sul mercato del lavoro, soprattutto se esistono meccanismi che consentono ai lavoratori di lasciare il mercato del lavoro in anticipo”. Sono pertanto “essenziali” politiche per promuovere l’occupazione e l’occupabilità e per migliorare la capacità degli individui ad avere carriere più lunghe.
Eppure, nonostante un giudizio complessivamente non positivo sul nostro sistema previdenziale, l’Ocse riconosce dei passi avanti fatti dall’Italia negli ultimi anni, almeno sotto il profilo della sostenibilità finanziaria. “Con una spesa pubblica per pensioni di vecchiaia e superstiti pari a 15,4% del reddito nazionale (rispetto a una media Ocse del 7,8 %), l’Italia aveva nel 2009 il sistema pensionistico più costoso di tutti i Paesi dell’Ocse”, nota il rapporto. Con la riforma voluta dal ministro Elsa Fornero nel 2011, però, secondo l’organizzazione “l’Italia ha realizzato un passo importante per garantire la sostenibilità finanziaria” del sistema delle pensioni. In particolare, la riforma avrebbe “stabilizzato la spesa sul medio periodo” (2010-2050). Non solo. Secondo i calcoli dell’Ocse, l’esborso per le casse dello Stato scenderà al 14,5% nel 2015 e al 14,4% nel 2020. Ma nei decenni successivi tornerà a salire, oscillando tra il 15% e il 15,9 per cento.
“Alzare l’età pensionabile e promuovere le pensioni private sono tutti passi nella giusta direzione, ma da soli non sono sufficienti”, ha detto il segretario generale dell’Ocse Angel Gurría. “I governi devono considerare l’impatto a lungo termine sulla coesione sociale, la disuguaglianza e la povertà. Assicurare tutti hanno un tenore di vita dignitoso, dopo una vita di lavoro dovrebbe essere al centro delle politiche”. Coloro che hanno un reddito basso riceveranno in pensione circa il 70% dei loro guadagni nell’intera carriera. Ma chi rientra nella fascia di reddito media riceverà solo circa il 54% dei guadagni al momento del pensionamento, con il rischio di un forte calo del tenore di vita. Percettori di redditi alti riceveranno solo il 48% dei loro guadagni, ma sono meno vulnerabili a causa di maggiori risparmi personali e investimenti.