Il milione e mezzo di catalani che lo scorso 11 settembre, giorno della Diada, la festa che commemora la caduta di Barcellona del 1714 per mano dei Borboni, manifestarono per rivendicare l’indipendenza dalla Spagna, fanno ora i conti con un intreccio di norme, di interpretazioni contrastanti, con l’ostilità degli organismi internazionali e con le implacabili leggi dell’economia. Larghi strati della società catalana, sostenuti dal partito moderato di Convergencia i Union del presidente della regione autonoma Artur Mas, e da Esquerra Republicana, vorrebbero raggiungere l’obiettivo dell’autodeterminazione attraverso un referendum, strumento che darebbe non poche chances ai fautori del distacco da Madrid.
L’iniziativa però non decolla, le questioni giuridiche preliminari poste sul referendum frappongono ostacoli difficili da aggirare e il precedente in materia non incoraggia: nel giugno del 2008 il governo dei Paesi Baschi, dove è da sempre forte lo scontro sul terreno del nazionalismo, indisse un referendum non vincolante sull’autodeterminazione. La consultazione fu bocciata dal Tribunale Costituzionale di Madrid perché mancante del permesso dello Stato centrale. La Corte rilevò pure che in elezioni significative al punto da toccare l’integrità territoriale della nazione il diritto di voto andrebbe riconosciuto all’intero corpo elettorale spagnolo. Argomentazioni giuridiche valide in ogni stagione della politica per placare gli impulsi nazionalisti.
L’Unione europea, dal canto suo, ha storto da subito il naso dinanzi alla prospettiva di una Spagna frazionata, con la regione economicamente più forte che diventa Stato e che si pone come possibile apripista per rivendicazioni indipendentiste di altri territori della penisola iberica. La Commissione europea ha più volte ribadito che se una regione di uno Stato membro si proclama indipendente, essa immediatamente si converte in Stato terzo, perdendo quindi lo status di paese comunitario. Il colpo non è facile da assorbire per i nazionalisti perché i primi ad avvertirlo sono stati gli imprenditori i quali attraverso l’export hanno fatto grande l’economia della regione.
Il barcellonese José Manuel Lara, presidente di Planeta, gruppo editoriale di punta che controlla La Razón e il canale televisivo Antena 3, lo ha dichiarato a chiare lettere: “Se la Catalogna diventa indipendente il nostro gruppo industriale dovrà dislocare altrove le proprie attività“.
“La Catalogna è parte essenziale della Spagna” ha invece affermato in una recente intervista al New York Times José Lluis Bonet, presidente del Foro dei Marchi spagnoli e noto produttore di “cava” marca Freixenet, lo spumante catalano leader nelle esportazioni. Sono valse queste poche parole per far patire all’azienda di Bonet il boicottaggio dei prodotti, da parte dei nazionalisti, intralcio che corre parallelo con le antipatie generalmente manifestate negli ultimi tempi dagli spagnoli verso la produzione catalana. Un fuoco incrociato, e opposto, che fa male ma non sfianca del tutto le imprese che hanno una forte vocazione per l’export. Due giorni fa anche Luis María Linde, Governatore della Banca di Spagna, ha voluto intervenuto sul delicato argomento segnalando come l’indipendenza politica porterebbe le banche con quartier generale in Catalogna ad affrontare problemi irreversibili, si chiuderebbe definitivamente – secondo il Governatore – il rubinetto del finanziamento della Banca Centrale Europea. Uno scenario tenebroso anche per una regione influente che è la vera locomotiva economica della penisola.