Vent'anni dopo l'appoggio a Fini sindaco, ecco la storia politica del Caimano che detestava le Camere e le usava soltanto per leggi ad personam e insulti ai nemici
Mercoledì 27 novembre, salvo sorprese, per Silvio Berlusconi è l’ultimo giorno di Parlamento. L’ha sempre disprezzato, da oggi lo rimpiangerà (che fa rima con immunità). Tutto accade a vent’anni esatti dalla sua prima uscita politica. È il 23 novembre ’93 quando, inaugurando un ipermercato Standa a Casalecchio di Reno, annuncia il suo appoggio a Fini contro Rutelli, che si giocavano al ballottaggio la poltrona di sindaco di Roma. Forza Italia è pronta da mesi. Marcello Dell’Utri ci ha lavorato da par suo. Il primo a saperlo è stato Craxi, il 4 aprile. La Fininvest affoga nei debiti (2.500 miliardi di lire), il pool Mani Pulite ronza attorno al Cavaliere da un anno, arrestandogli un manager via l’altro. In estate, mentre ad Arcore impazzano i provini per i candidati (uno, per l’emozione, è caduto nella piscina), è stato avvertito anche Indro Montanelli: “Entro in politica, il Giornale sarà con me?”. “Te lo puoi scordare”.
Montanelli sostiene i referendum di Segni, per un centrodestra liberale e moderato. E il 25 novembre avverte il Cavaliere sul Giornale: “L’idea di mettere intorno a un tavolo Bossi, Fini, Segni, Martinazzoli e non so chi altro mi sembra un sogno a occhi aperti. Ma anche se Berlusconi riuscisse a realizzarlo, con quegli ingredienti non si fa un programma: si fa solo un minestrone da cui non ci si può aspettare nulla di concreto”. E, sia chiaro, “l’unico che può cacciarmi è il becchino”. Da quel momento sulle reti Fininvest i vari Sgarbi, Fede e Liguori – i “manganelli catodici” – iniziano a massaggiargli la schiena per indurlo alle dimissioni. Il 26 novembre, mentre Mentana, Costanzo e i giornalisti Mondadori chiedono garanzie sull’autonomia del Gruppo, il vecchio Indro dice a Sette: “Se oggi in Italia saltasse fuori un altro Mussolini, avrebbe spazio libero. Ma abbiamo visto dove portano gli incantatori di masse”.
Minoli anticipa un’intervista a Mixer del Cavaliere, che intanto affronta i giornalisti alla Stampa estera, per la prima volta da politico. Finge di non aver deciso se entrare in politica direttamente o solo come sponsor di un rassemblement: la candidatura è solo l’extrema ratio, lui non se la augura. E l’iscrizione alla P2? Una storia vecchia. E il fascismo? Un’ideologia vecchia, “sepolta nel passato”. E chi dice il contrario? “Si vergogni!”. La stampa di sinistra, italiana ed europea, è più scandalizzata dall’appoggio al “fascista” Fini che dal finanziere-tycoon in politica. Ma il Berliner Zeitung scrive: “Nessuno in Europa ha tanto potere nei media quanto Berlusconi”, senza contare i “grossi debiti del suo gruppo”. La parola “conflitto d’interessi” fa capolino anche in Italia, perché il Tg4 ha trasmesso integralmente la conferenza stampa. Veltroni annuncia: “Faremo subito una legge antitrust sulle tv e la pubblicità”. Buona questa.
Si fa vivo anche Giorgio Napolitano, presidente della Camera con un monito ante litteram: “Possono anche entrare in campo nuovi soggetti dalla vita economica. Ma le istituzioni si facciano carico di garantire il massimo equilibrio nell’uso dei mezzi di informazione”. Buona anche questa. Il Cavaliere replica a stretto giro in terza persona: “Se un editore importante dovesse scendere in campo, mi parrebbe giusto e di buon senso scegliere tra le due cose”. Buona pure questa. Nascono i comitati Boicotta Biscione di Gianfranco Mascia. Tina Anselmi paventa il ritorno della P2. Sgarbi ce l’ha con “i nipotini di Stalin”. Bossi capisce subito che la volpe di Arcore vuole razziare nel suo pollaio: “Un partito non si crea dall’alto, piazzando una decina di generali: deve nascere dal popolo”.
Berlusconi entra per la prima volta in Senato il 16 maggio 1994. Presenta il suo primo governo per la fiducia. E dice: “È stato legittimamente sollevato il problema del conflitto d’interessi… Nel primo Consiglio dei ministri abbiamo deciso una commissione di esperti per trovare delle soluzioni entro fine settembre”. Poi fa gli auguri “ai nostri atleti” in partenza per i Mondiali di calcio in America e, già che c’è, pure al Milan che ha vinto la Champions “per difendere i suoi colori, quelli di Milano ma anche quelli dell’Italia”. Il 19 maggio, a Montecitorio, parla per l’opposizione Giorgio Napolitano. Nuovo monito ante litteram: “Ricercare il più ampio consenso per le riforme costituzionali” e dialogo con il governo: “una linea di confronto non distruttivo tra maggioranza e opposizione”. Che “non deve impedire che il governo governi”. Manco fosse a Westminster. Il Cavaliere si arma di un sorriso a 32 denti e sale a stringere la mano a questo “oppositore corretto, all’inglese”.
Da allora a oggi le apparizioni del Cavaliere in Parlamento saranno un po’ meno numerose dei suoi capelli veri, forse anche dei suoi processi. Quasi soltanto per le fiducie dei governi suoi e altrui, e per le leggi sugli affari suoi. Il 2 agosto ’94 tuona contro la sinistra che vorrebbe (addirittura) “l’esproprio proletario” della Fininvest: “ma siamo in Italia, non nella Romania di Ceausescu”. Per il resto “il Parlamento mi fa perdere tempo” (11.10.94). Ma, sia chiaro, “il mio rispetto per il Parlamento è assoluto”. Il 21 dicembre gli tocca proprio andarci, alla Camera, perché Bossi l’ha appena sfiduciato: “Ha una personalità doppia, tripla, forse anche quadrupla. Il suo mandato diventa carta straccia. Una grande rapina elettorale”. Il 2 agosto ’95 lancia la sua riforma costituzional-presidenzialista. L’anno seguente, per oliare l’inciucio della Bicamerale, ottiene dal solito Violante una seduta straordinaria della Camera per denunciare lo scandalo del “cimicione”: “Onorevoli colleghi, il fatto è grave. Un’attività spionistica ai danni del leader dell’opposizione, da chiunque ordita, rientra perfettamente nel panorama non limpido della vita nazionale. Mai, nella storia repubblicana, sono gravate sulla libera attività politica tante ombre e tanto minacciose. Nella giustizia malata di questo Paese siamo alle intercettazioni virtuali” (16.10.96). Si scoprirà poi che l’aggeggio trovato a Palazzo Grazioli è un ferrovecchio scassato e inservibile, piazzato lì non dalle toghe rosse, ma dalla stessa ditta da lui incaricata di “disinfestare” la casa.
Nel ’97 Berlusconi vota con l’Ulivo per la missione militare in Albania, mentre Lega e Rifondazione sono contro. Il leghista Luigi Roscia lo canzona: “Bravo, inciucione!”. E lui: “Bravo tu, furbacchione: votate con Rifondazione, avete proprio delle facce di cazzo!”. Poi cade Prodi e arriva il governo D’Alema-Cossiga-Mastella. Il Cavaliere, alla Camera, torna a strillare al ribaltone: “Continua con D’Alema la maledizione dei partiti comunisti: mai riusciti ad andare al governo con un libero voto popolare… Questo è uno sciagurato mix fra vecchi gladiatori e vecchie guardie rosse… Moro fu assassinato dalle Br, i cui volti spuntavano dall’album di famiglia del comunismo italiano. Il suo, onorevole D’Alema, è un governo senza legittimità democratica, ha solo il 28% dei consensi”. Fabio Mussi lo fulmina: “Quando arriva al 100 per cento, Cavaliere, ci faccia un fischio” (24.10.98).
Nel 2001 torna al governo, ma non in Parlamento. Un giorno i Ds gli chiedono di riferire alle Camere sul Medio Oriente, e lui: “Sono richieste ridicole! Basta leggere i giornali, anche l’Unità, e tutti possono sapere la situazione in Medio Oriente” (6.3.2002). L’Italia entra in guerra contro l’Iraq. Scalfaro denuncia in Senato il “servilismo” di B. verso Bush. Lui sibila: “Ma vaffanculo!”. L’ultima impresa parlamentare degna di nota è in Senato, all’approvazione della Devolution: “Chi non salta comunista è!” (16.11.05). Poi più nulla fino al 22 aprile 2013, dopo l’ultimo capolavoro: la rielezione di Napolitano. Il Re esalta l’inciucio prossimo venturo e lui magnifica “il discorso più straordinario che io abbia mai sentito nei vent’anni di vita politica”. Ergo, “meno male che Giorgio c’è”. Segue abbraccio affettuoso. Sette mesi fa, e pare già un secolo. Il 2 ottobre, mentre Bondi alla Camera tuona contro Letta Nipote (“vergogna vergogna!”), Berlusconi in Senato annuncia la fiducia. Oggi – salvo colpi di scena, o di coda, o di mano, o di testa, o di sonno – Palazzo Madama voterà la sua decadenza. E, se sarà presente, i commessi lo accompagneranno all’uscita. Potrà rientrare fra sei anni, quando ne avrà 83. E l’ordine lo darà il presidente Piero Grasso, lo stesso che l’anno scorso voleva premiarlo per il suo indefesso impegno antimafia. A quel punto, al Caimano, verrà da ridere. O forse da piangere.