Società

Vietnam e Corea – La dura vita del turista organizzato

La Cina, la Cina! Andare a vedere come se la passano i nuovi padroni del mondo era una delle certezze del nostro giro fin dall’inizio; ma ora, arrivati sulla soglia, siamo perplessi. Deve essere uno degli effetti dell’Oriente, dove le certezze appassiscono in un battito d’ali. E poi senza la Rabmobile, anche solo come miraggio da inseguire (a questo punto casomai da recuperare), non abbiamo la nostra stella polare color verde Shetland che ci guidava contromano.

All’ambasciata della Cina a Seoul dopo una coda lunga quanto un pomeriggio scopriamo che prima di rilasciarci il visto ci avrebbero trattenuto il passaporto una settimana. Decisamente troppo. Ma siamo in Asia, appunto, dove il caso ha sempre l’ultima parola. È appena arrivata la mail di Vincenza e Stefania, due colleghe di Nanni che annunciano la loro partenza da Milano per un viaggio stampa in Vietnam. Il Vietnam va fortissimo, Saigon è una città in ebollizione, la moda dei masterchef sta arrivando anche qui, scrive Vincenza, caporedattore in un telegiornale (mentre Stefania collabora con una rivista femminile); se ci va, ci possono imbucare nel corso itinerante di cucina vietnamita a cui sono state invitate. Per il Vietnam il visto si può fare anche online, basta pagare 45 dollari, e così decidiamo di partire per Saigon giusto in tempo per unirci alla spedizione sul delta del Mekong con annessacooking class.

Da Saigon sono passati un po’ tutti, e molti sono ancora in giro, quasi tutti in scooter; sciami impressionanti di formiche a due ruote che si superano, si strombazzano e si infilano dappertutto, ignorando i pedoni. Soprattutto, da qui sono passati i francesi; nel centro della metropoli l’impronta occidentale è rimasta, con boulevard vagamente parigini e Balzac testimonial del caffè (foto 1); in compenso, nessuno parla più il francese e in pochi anche l’inglese.

Torna in pista l’alfabeto latino, ma la buona notizia annega quasi subito nel labirinto di sillabe quasi uguali in cui è immersa ogni parola. Sbagli una consonante e sei finito. In più i taxisti bluffano, dicono di parlare inglese ma in realtà non hanno idea. Dopo mezz’ora di ricerche infruttuose del Tan Hoang Long Hotel, siamo noi ad avvistare l’insegna e a indicarla al guidatore.

L’indomani, dopo una partita a scacchi con un altro taxista, raggiungiamo il lussuoso hotel delle nostre amiche. Il minivan ha già il motore acceso, Vincenza e Stefania felici di vederci ma non possono dedicarci troppa attenzione; sono già ai loro posti di combattimento, taccuino alla mano. Finché si scherza si scherza, ma col turismo si fa sul serio. La guida brandisce il microfono ed esordisce con la raccomandazione di non allontanarsi dal gruppo e di guardarsi dai tanti pericoli in agguato per le strade di Saigon; più o meno le stesse parole che abbiamo già sentito dai taxisti sudamericani, ormai conosciamo a memoria la lezione.

Dopo un’ora di autostrada arriviamo nella cittadina di My Tho dove un barcone che ci traghetta alla riva opposta del grande fiume marrone (foto 2); breve passeggiata nella campagna pluviale fino alle barchette necessarie per percorrere i canali più piccoli e arrivo alla locanda dove si pranzerà con i cibi preparati dalle allieve del corso di cucina.

Programma denso, ma non senza fermate intermedie. A una fabbrica di miele organico; a un teatrino rustico con ascolto di musiche tradizionali, a una distilleria di canna da zucchero; a una ulteriore fabbrica di caramelle al cocco. Altrettanti consigli per gli acquisti, di cui le nostre amiche si rivelano entusiaste. E bisogna vedere con quale energia si prodigano tra utensili e pentolame a noi ignoto per poi di farci assaggiare le loro pietanze: insalata di morning glory con arachidi, funghi e fiori di banano per Vincenza; pancake con fagioli, maiale e pesce stufato per Stefania. Fosse il pancake, le musiche tradizionali o i pesanti monsoni del Mekong, alle quattro del pomeriggio torniamo a Saigon distrutti. Forse, semplicemente, non siamo allenati a fare i turisti, perché ormai per fare i turisti ci vuole un fisico bestiale.

Non è vero che tutto il mondo è diventato un tour organizzato, si può ancora provare a remare contromano; è vero però che oggi il turismo può trasformare in se stesso qualsiasi cosa, dalla cucina alla guerra. Ce ne eravamo accorti già a Seoul, in visita alla DMZ la Zona Demilitarizzata, il cuscinetto di quattro chilometri, due per parte, che separa le due coree. Niente muri, ma mine e contingenti militari che dal 1971, data del cessate il fuoco (ma non della pace, come le guide non si stancano di ricordare ai turisti), si sorvegliano da lontano, senza che nulla accada. Una specie di deserto dei Tartari al quadrato.

Ma su questo deserto i sudcoreani hanno creato una gioiosa macchina turistica, che porta nei pullman due milioni di visitatori l’anno. Il pezzo forte è la visita al terzo tunnel scavato dai nordcoreani a 52 chilometri da Seoul e utilizzato per l’infiltrazione di agenti segreti (ancora adesso pare che le due coree siano piene di spie perfettamente identiche tra loro, come in un racconto di Borges). All’ingresso del tunnel, veniamo dotati di un caschetto giallo come quello che indossa Bruno Vespa quando va a visitare i terremotati dell’Aquila, e procediamo a testa china nelle viscere della terra (foto 3).

Qualcuno nota che la galleria è in ottime condizioni. La guida spiega che quello non è il tunnel segreto dei nordcoreani, ma quello scavato dai sudcoreani per permettere ai turisti di raggiungere il tunnel segreto (segreto fino a un certo punto, ormai). L’ultima tappa è l’osservatorio che affaccia sulla città nord coreana di Gaesong, dove ci viene indicata una statua in bronzo di Kim-Il-Seong, che noi però, aguzzando le pupille in uno dei tanti telescopi a gettone (foto 4), non riusciamo a individuare nella campagna silenziosa.

Che la guerra fosse un ottimo business per i mercanti di armi lo sapevamo; che lo fosse diventato anche per le agenzie di viaggio, no.

(24-continua)