Digitando su google il nome de I Dottori e vicino quello del loro primo album “Canzone Perfetta” si incapperà in più di qualche recensione positiva, per una band che è evidentemente sconosciuta ai più, ma solo di poco inferiore agli Arcade Fire: tanto per citare un gruppo, tra tanti, la cui tifoseria mi ha dato immense soddisfazioni, seconde solo a quelle della curva-sud dei Dream Theater: cui tra l’altro mi vanto di appartenere. Mi avete insegnato che per far arrivare un progetto musicale, un disco, è evidentemente più premiante parlarne male ed è per questo che vorrei sostenere una tesi contraria a quello che è invece il mio fermo pensiero: I Dottori sono la peggiore band su piazza. Inspiegabilmente però a me piacciono, ma questo è solo l’ultimo, direi l’ennesimo, sintomo della mia scarsa competenza, le cui fondamenta ho intenzione di far traballare ulteriormente parlandovi proprio dei ragazzi in questione. Vi invito quindi a deporre cortesemente l’ascia di guerra, che tanto il mondo è pieno di “migliori band dell’universo”e non è assolutamente questo il caso.
“Canzone Perfetta” mi smuove invece tutt’altre riflessioni, evidentemente più urgenti: cosa ne sarebbe del nostro paese – musicalmente parlando – se band come I Dottori avessero pari opportunità di stampare un disco, farlo entrare in classifica e rincasare da un concerto con qualcosa di più concreto che una insipida pacca sulla spalla? E’ una condizione che evidentemente vivono quasi tutti coloro che, in Italia, si trovano a voler far musica: in un paese che è ancora troppo preso a pensare ai fasti (presunti) che furono, passando dal Banco del Mutuo Soccorso alla tradizione ignobile e immortale della musica leggera degli ultimi 50 anni, in uno scenario che somiglia molto più a un ospedale geriatrico e che, come nei sistemi più collaudati, vede bene di espellere qualsiasi agente esterno in grado, magari, di portare un minimo di ricchezza e contenuto: per non parlare poi dei totem, direi i feticci di De Andrè o Tenco, che – come per Freud – pochi hanno frequentato, ma molti, se non tutti, hanno in bocca tanto per parlare e quasi mai per dimostrare di avere effettivamente qualcosa da dire.
Quello de I Dottori è anzitutto un disco rock, nel senso che come buon parte degli album del genere puzza di birra e di piscio e trasuda parecchio della fatica che evidentemente è costato realizzarlo: non meno, è costante e armonizzato nel tempo, così come a me è accaduto – praticamente da 2 anni a questa parte – di ascoltarlo una prima volta e nella sostanza non lasciarlo mai a se stesso.
Dalla prima “Christine”, cafona e diretta così come solo alle ‘opener’ deve essere consentito, arriviamo a “Belladonna“, che è forse il nucleo centrale di questa proposta musicale: come prendere Rino Gaetano, Fred Buscaglione e Ivan Graziani e fargli ascoltare “Nevermind” dei Nirvana piuttosto che “Superunknown” dei Soundgarden fino a farne i loro dischi preferiti. Senza voler poi render conto del disco nella sua interezza, cosa che è molto più saggio decidiate di fare da voi, sorvoliamo ad alta quota per arrivare a “L’Artista”, dove il cantante Andrea Di Toppa smette di urlare come un cane bastardo (e si sa, i meticci vincono sempre sul pedegree) per raccontare, forse denunciare, la circostanza del musicista cosiddetto ‘emergente’ che da una parte si vede costretto, gioco forza, a ‘chiudere i propri progetti in cameretta’ e dall’altra avverte l’impellenza di dover arrivare prima degli altri, sopra gli altri: un brano di classe, che mischia la rabbia e la monotonia quasi stoner delle prime ascoltate ad aperture decisamente più melodiche e ‘nostrane’.
“Pornonauta”, a essa confinante, è diretta e gratificante come il treno su cui sei saltato in piena corsa ma il cui biglietto hai dimenticato, volentieri, di pagare: un ticket di sola andata per il punk più viscerale. “Canzone Perfetta”, la cui ironia nasconde in realtà le vere istruzioni per il ‘brano ultimo’, è un trip un po’ rock n’ roll un po’ swing che all’eleganza e alla compostezza del gessato abbina il cinismo sacrosanto di chi sa di essere, a dir tanto, il primo tra gli ultimi. Un piccolo grande album, che nella sua immensità sconforta non foss’altro per la consapevolezza che di quel meraviglioso sottobosco che molti si affannano a raccontare – spesso con la stessa pietà umana che si ha al semaforo – poco sapremo e sopratutto poco ‘ci faremo’: con buona pace delle intenzioni (scherziamo?) sempre nobili e pure. Io ho fatto il mio, rendendo giustizia a quello che ritengo essere – senza timore di smentita – uno dei migliori prodotti di “musica nuova” che ho ascoltato negli ultimi tempi. Ora, tocca a voi.