Tabula rasa. Per rilanciare il sistema produttivo italiano occorre lasciare andare pezzi di economia decotti, investire in nuovi settori, innovare prodotti e servizi, e anche gli imprenditori si devono dare una mossa.

Perché la crisi italiana non c’entra nulla con il crack Lehman Brothers, è una cosa che arriva da (molto) prima. E’ questo il quadro abbastanza desolante che esce dal Diciottesimo Rapporto annuale sull’economia globale e l’Italia, presentato  lunedì a Milano. Lo studio, in collaborazione tra il Centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi e Ubi Banca, e coordinato dall’economista Mario Deaglio, dice con chiarezza quello che in molti – considerati pessimisti – andavano pensando da tempo. Che l’Italia è arrivata al 2007 come “anatra più zoppa delle altre”, letteralmente, protagonista di un “disimpegno industriale” che ha visto gli imprenditori (oltre allo Stato) rifugiarsi in un alibi fatto di denaro a basso costo e relativa finanziarizzazione dell’economia (in parole povere, il vecchio adagio italiano di impresa povera e imprenditore ricco).

Il risultato è che dal 2007 a oggi il Pil italiano ha perso 9 punti percentuali, come cedere insieme la ricchezza di Piemonte e Valle d’Aosta, mentre il manifatturiero ha perso ben il 24 per cento: insomma, un quarto della capacità produttiva italiana si è dissolta. Come uscire dallo stallo? Secondo lo studio di Deaglio non si possono fare aggiustamenti di facciata perché il problema è strutturale: dunque bisogna “toccare il fondo”, lasciar andare interi distretti industriali, in soldoni produzioni a basso valore aggiunto che ormai nell’Est Europa e in Cina fanno meglio di noi –  e a costi infinitamente minori – e puntare su altro. Il futuro è imprevedibile. Di certo, imprenditori innovativi, e il contributo delle start-up sarà determinante. Riusciremo  a risalire la china? La risposta non è per niente scontata.

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