Giustizia & Impunità

Processo Borsellino Quater, lettera aperta al capo della polizia Alessandro Pansa

Egregio Dott. Pansa,
mi rivolgo a Lei prima di tutto come cittadino italiano e poi come fratello del magistrato Paolo Borsellino, un servitore dello Stato che il suo giuramento di fedeltà allo Stato Italiano ha mantenuto fino all’estrema conseguenza, il sacrificio della vita. Sacrificio causato forse anche da pezzi deviati di quello stesso Stato a cui aveva prestato giuramento e che invece con l’antistato, la criminalità organizzata, aveva avviato un scellerata trattativa.
Fino a ieri, quando mi capitava di incontrare un poliziotto in divisa, non potevo non provare dentro di me un sentimento di profondo rispetto e di gratitudine, non potevo non ricordare il gesto di mia madre che, il giorno dopo quella tremenda esplosione che in via D’Amelio gli aveva portato via il figlio, aveva voluto baciare, una per una, le mani delle madri dei poliziotti che erano stati uccisi insieme a lui: disse a quelle mamme che avevano sacrificato le vite dei loro figli per suo figlio. Agostino Catalano, Claudio Traina, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Eddie Cosina, avevano protetto con il loro corpo il corpo di Paolo ed erano stati fatti a pezzi. Anche loro, fino all’ultimo, avevano rispettato il loro giuramento allo Stato. 
 
Quei ragazzi rappresentavano fino a ieri per me la Polizia di Stato. Fino a ieri e continueranno a rappresentarla sempre. 
Ma da ieri, vedendo un poliziotto in divisa, non riuscirò più a far dissolvere dalla mia mente l’immagine e la voce di altri due uomini, anche loro appartenenti alla Polizia di Stato, quello Stato a cui anche loro hanno prestato giuramento, che, nell’aula bunker del tribunale di Caltanissetta, dove si svolge il processo cosiddetto Borsellino Quater, dove sono comparsi in veste di testimoni, hanno taciuto, si sono avvalsi della facoltà di non rispondere.
 
Vincenzo Ricciardi, già questore di Bergamo e attualmente in pensione, e Mario Bo’, dirigente della Divisione Anticrimine della questura di Gorizia, insieme ad un terzo poliziotto, Salvatore La Barbera, dirigente della Criminalpol di Roma, che non si è presentato, sono indagati dalla Procura di Caltanissetta perché sospettati di avere depistato le indagini sulla strage di via D’Amelio.
 
Degli uomini che vestono la stessa divisa di quelli uccisi insieme al magistrato Paolo Borsellino sono indagati per il reato di calunnia aggravata perché in concorso con altri, ancora da individuare, avrebbero indotto, mediante minacce e percosse, Salvatore Candura, Francesco Andriotta e Vincenzo Scarantino, a mentire in merito alle stragi del ’92
Secondo l’accusa, obbedendo agli ordini del loro capo Arnaldo La Barbera, avrebbero confezionato ad arte una falsa pista capace di reggere tre processi e nove gradi di giudizio, centrandola sul falso pentimento di Scarantino. E’ grazie a questo depistaggio se oggi, a venti anni di distanza, si è arrivati a celebrare un “Borsellino Quater” per individuare i veri responsabili materiali della strage. 
Per quanto riguarda quelli morali, alcuni sono già morti, altri su quella scellerata trattativa, che causò l’accelerazione della condanna a morte di Paolo Borsellino, continuano a mantenere una scellerata congiura del silenzio che solo ora comincia a mostrare qualche incrinatura. 
 
Ed è grazie a questo depistaggio, che ha retto per venti lunghi anni prima che si arrivasse a questo nuovo processo, che una lunga sequenza di testimoni – come quelli presenti in via D’Amelio subito dopo la strage mentre dalla borsa di Paolo veniva sottratta la sua agenda rossa – possono trincerarsi, a causa del tanto tempo trascorso, dietro una avvilente sequenza di “non ricordo” e “non posso ricordare”.
Ma avvalersi della facoltà di non rispondere è molto peggio che non ricordare, avvalersi, come testimoni, della facoltà concessa agli imputati di reato connesso – e si tratta di poliziotti – significa, per quelli che dovrebbero essere dei servitori dello Stato, mettere deliberatamente degli ostacoli sulla strada della Verità e della Giustiza. Significa continuare ad essere corresponsabili di uno dei peggiori depistaggi della storia d’Italia, che pure di stragi di Stato e di successivi depistaggi letteralmente trasuda. 
 
Significa, ed è davvero intollerabile proprio perché di servitori dello Stato si tratta, mostrarsi più omertosi dei mafiosi. 
 
E purtroppo, in questo, l’esempio che arriva dalla massima carica dello Stato non è dei più edificanti se, piuttosto che mostrarsi disponibile a fornire tutti gli elementi necessari per l’accertamento della verità, si cerca invece di sollevare dubbi sull’utilità di testimoniare in un processo che ha ad oggetto proprio le deviazioni dello Stato in quegli anni delle stragi di cui, per gli incarichi ricoperti, proprio l’attuale Capo dello Stato è stato un testimone privilegiato.
 
Un altro poliziotto, un altro servitore dello Stato, Gioacchino Genchi, è stato destituito dalla Polizia, dopo 25 anni di onorato servizio, “per avere offeso l’onore e il prestigio del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi”. E di quale onore e prestigio si trattasse lo ha dimostrato l’ignominiosa espulsione dal Senato della Repubblica per una condanna per reati fiscali.
Il Suo predecessore, il capo della Polizia Antonio Manganelli, nel 2009 sospese Gioacchino Genchi dal servizio per avere risposto, su Facebook, ad un cronista che gli dava del bugiardo. Una seconda sospensione gli venne comminata per avere rilasciato un’intervista sul suo ruolo di consulente. Entrambe le condotte erano state ritenute “lesive per il prestigio delle istituzioni e per l’immagine della Polizia”. L’ultima e definitiva, nel 2010, sollecitata da Maurizio Gasparri, gli arrivò per avere ancora offeso “l’onore e il prestigio del presidente del Consiglio” osando criticare la peraltro scandalosa strumentazione del presunto attentato di Massimo Tartaglia.
 
A fronte di quanto esposto Le chiedo se non ritenga doverosa la destituzione di Mario Bo’ dalla Polizia di Stato per avere leso, lui sì, il prestigio dell’istituzione di appartenenza.
 
Sarà una maniera per rendere onore e giustizia a quei servitori dello Stato che non possiamo più chiamare “eroi” perché questa parola è stata infangata da chi, continuando a definire pervicacemente un eroe l’assassino Vittorio Mangano, ha elevato ad eroismo quella stessa omertà di cui si sono macchiati, con il loro rifiuto di testimoniare, questi uomini, appartenenti alla Polizia di Stato, che non hanno saputo degnamente indossare la divisa che portano.