La lettera che Giorgio Napolitano ha spedito alla corte d’assise di Palermo non servirà probabilmente ad evitare la deposizione del Capo dello Stato al processo sulla trattativa tra pezzi dello Stato e e Cosa nostra. Le due pagine autografate dal presidente della Repubblica rimarranno infatti fuori dal fascicolo processuale.

“La Corte prende atto che non vi è consenso all’acquisizione del documento e soprattutto sulla utilizzazione del suo contenuto rappresentativo” ha decretato il presidente Alfredo Montalto, che aveva chiesto alle parti di esprimersi sull’utilizzo della missiva spedita da Napolitano. Favorevoli all’acquisizione del documento, e alla cancellazione della citazione di Napolitano, erano l’avvocato Giuseppe Di Peri, legale di Marcello Dell’Utri, l’avvocato Basilio Milio, difensore di Mario Mori e Antonio Subranni, e l’avvocato dello Stato Giuseppe Dell’Aira. “A prescindere dalle determinazioni dei pm – aveva chiesto l’avvocato Di Peri ­ credo che dal contenuto della lettera pervenuta e dal contenuto dell’ordinanza emessa da questa corte d’assise il 17 ottobre 2013, che mette dei precisi paletti alle domande che possono essere formulate, per noi è assolutamente inutile sentirlo, se non per un rumore mediatico che non necessita a nessuno”.

A chiedere e ottenere la deposizione di Napolitano era stata la procura di Palermo, che vuole interrogare il capo dello Stato sulla missiva ricevuta dal Quirinale il 18 giugno 2012: in quella lettera l’ex consulente del Colle Loris D’Ambrosio espone i suoi dubbi per essere stato “utile scriba di indicibili accordi” tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, lo stesso periodo in cui, secondo l’accusa, si sviluppa la Trattativa. “Per quel che riguarda il passaggio della lettera del consigliere D’Ambrosio cui fa riferimento la richiesta di mia testimonianza ammessa dalla Corte, non ho da riferire alcuna conoscenza utile al processo” scrive il presidente della Repubblica, nel documento spedito il 31 ottobre scorso. Spiegazioni scritte che per gli avvocati di Dell’Utri, Mori e Subranni basterebbero a cancellare la deposizione di Napolitano dal processo.

Di segno chiaramente contrario le richieste della procura, che spinge per la testimonianza del capo dello Stato. “La lettera del capo dello Stato non può essere intesa come sostitutiva della testimonianza del teste. La lettera infatti non esaurisce l’argomento da chiarire così come da capitolato di prova: è una richiesta alquanto curiosa quella delle difese poiché questa lettera non è un documento formale, in quanto tale. È un atto che il presidente ha inteso inviare quale persona chiamata a testimoniare. Non credo che questo atto diverso possa trovare ingresso nel dibattimento. Mentre la deposizione del capo dello Stato potrà chiarire alcuni aspetti fondamentali” ha spiegato in aula il procuratore aggiunto Vittorio Teresi, aggiungendo che “non c’è un riferimento normativo nel nostro codice che consenta di surrogare una testimonianza che era già stata ritenuta pertinente e rilevante da uno scritto proveniente dallo stesso testimone: è un atto fuori dalle regole”.

La corte, registrando posizioni diverse tra le parti, ha deciso di non inserire la missiva del capo dello Stato nel fascicolo del processo. Sull’audizione di Napolitano, invece, i giudici hanno deciso di riservare “a tempo debito le determinazioni che, se vi saranno i presupposti, potranno essere adottate, nel corso dell’istruttoria dibattimentale ai sensi dell’articolo 495, comma 4, Codice di procedura penale, cosi’ come d’altra parte già indicato nell’ordinanza ammissiva”. La corte in pratica si riserva di valutare ulteriormente la citazione del capo dello Stato, nonostante avesse già dato il via libera alla testimonianza.

Nel frattempo, all’aula bunker del carcere l’Ucciardone è andata in archivio la testimonianza del collaboratore di giustizia Antonino Giuffrè, iniziata la settimana scorsa. “Quando si decide un delitto eccellente – ­ha spiegato il pentito interrogato dagli avvocati difensori – si avviano tutta una serie di attività per isolare, delegittimare gli individui che devono essere colpiti. C’è dietro tutto un lavoro, da parte di professionisti, imprenditori, teso a far crescere la pericolosità dei soggetti da colpire, viene avviata una vera e propria campagna di delegittimazione e di isolamento fino a quando poi non viene eseguita la sentenza di morte. Così fu per i giudici Falcone e Borsellino”.

L’ex sodale di Bernardo Provenzano ha speso qualche parola anche sul famoso archivio di Salvatore Riina, che sarebbe stato custodito nella villetta di via Bernini, non perquisita subito dopo l’arresto del boss corleonese, e poi trovata completamente vuota. “Credo che parte dei documenti presi a casa di Totò Riina subito dopo il suo arresto siano finiti nelle mani di Matteo Messina Denaro: la mia è però un’intuizione, anche Provenzano mi ha detto più volte che a casa di Riina c’erano diversi documenti. So che Riina mandava delle lettere a Provenzano e viceversa. Matteo Messina Denaro era uno dei soggetti più fidati e vicini a Riina”. Messina Denaro, boss di Castelvetrano, è l’ultimo grande latitante di Cosa Nostra: ricercato da oltre vent’anni, ha fatto perdere le sue tracce nel 1993.

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