E’ arrivato in Italia “Meat market. Carne femminile sul banco del capitalismo”, pamphlet scritto da Laurie Penny, giovane blogger e giornalista britannica collaboratrice del Guardian e di Internazionale. Un testo schietto e vivace, apprezzato in Inghilterra e ora pubblicato da Settenove, casa editrice appena nata che sfida le difficoltà del mercato editoriale con libri sulla prevenzione della violenza e delle discriminazioni di genere.
La tesi di fondo del saggio breve è che, anche se sono passati quasi quarantanni da quando le donne occidentali hanno ottenuto riconoscimenti legali e parità di diritti, vivano ancora in una condizione di subordinazione che viene messa in atto attraverso lo sfruttamento e il disprezzo per la loro carne. I corpi delle donne, infatti, continuano ad essere adibiti alla “riproduzione”, termine con cui si intende la messa al mondo dei figli, il loro accudimento quasi esclusivo, la cura della casa, del partner e dei parenti stretti in difficoltà.
Una condizione funzionale al mantenimento del sistema capitalistico che si è radicata, secondo le storiche Leonore Davidoff e Catherine Hall, tra il 1780 e il 1850, “quando il luogo di lavoro si spostò fuori casa e per le donne fu creata un’apposita sfera domestica e privata che recise, formalmente e simbolicamente, il legame tra i processi di produzione e quelli di riproduzione. Così se nel 1737 in Inghilterra più del 98% delle donne sposate lavorava fuori casa, nel 1911 più del 90% svolgeva solo lavori domestici”. Secondo l’autrice, la tanto sbandierata idea che le donne siano più portate “per natura” ad occuparsi dei figli e della casa è “una balla” ancora in auge, che è stata smascherata dai movimenti femministi degli scorsi decenni, che però non sono riusciti a modificare il sistema alla base. Oltre a essere subordinate a livello familiare le donne godono anche di una finta parità nel mondo del lavoro, che continua a essere profondamente sessista per quanto riguarda le mansioni, gli stipendi e le possibilità di “carriera”.
Come se tutto ciò non bastasse, alle donne vengono imposti modelli di bellezza falsati che le portano a essere ossessionate dal controllo dei propri corpi attraverso diete estenuanti, disturbi alimentari, eccessi di sport, chirurgia estetica. “La perversa e insinuante retorica della magrezza – scrive Penny – è la cessione forzata del potere personale, la vergogna e la disciplina della concezione patriarcale capitalistica imposta sul corpo delle donne, nel più crudele e insultante dei modi”. Questo controllo passa anche dalla sessualità: le donne, in particolare le giovani, vengono incoraggiate dai media e della moda a esibire corpi standardizzati e erotizzati, a credere che questa sia una delle tante libertà di cui dispongono e poi vengono tacciate di essere “sgualdrine, tentatrici, scopatrici seriali”. Rifacendosi a pensatrici come bell hooks (volutamente minuscolo, è lo pseudonimo di Gloria Jean Watkins, docente universitaria, femminista e scrittrice statunitense), Shulamith Firestone, Andrea Dworkin, Gloria Steinem, Germaine Greere, Nina Power, Naomi Wolf, Penny penetra nei meccanismi dell’oppressione, esponendosi in prima persona attraverso racconti di vita privata.
E propone una soluzione: chiede alle donne di smettere di dire sì. “Per quanto compriamo, scopiamo, soffriamo la fame, sudiamo e ci trucchiamo per nascondere i segni della stanchezza e dell’infelicità, e per quanto ci sottomettiamo” non vinceremo mai se giochiamo con le regole del sistema com’è adesso. “Se vogliamo vivere dobbiamo ricordare il linguaggio della resistenza”. Dobbiamo dire no. “Noi non saremo belle; no, non faremo le brave. E soprattutto ci rifiutiamo di essere belle e brave. Noi donne di questo secolo dobbiamo cessare questo logorante sforzo di pensare a noi stesse come un corpo “accettabile” e prendere coscienza, con chiara e luminosa certezza, del potere che abbiamo”.