Capelli lunghi tendenti a scomporsi, timidezza diversamente espressa, e un casuale incrocio di destini che scorre sul percorso Italia-Francia, in ambo i versi. Penelope Bortoluzzi e Greta De Lazzaris (in rigoroso ordine alfabetico) amano documentare la realtà. E il 31° Torino Film Festival ne ha apprezzato gli sguardi invitandole al concorso dedicato al documentario (Italiana DOC). L’una è veneziana ma residente da oltre un decennio a Parigi, l’altra è marsigliese ma residente a Roma. Entrambe sono giovani presenze che arricchiscono di talento la già sorprendente edizione in corso del cine-festival torinese, la prima diretta dal mirabolante Paolo Virzì.

Se l’accostamento tra le due registe vive dell’ironia di scambio patriae, il loro modo di fare e intendere il cinema dentro al documentario è certamente differente.

Nel profondo sud di una Calabria sempre emergenziale, la De Lazzaris resta folgorata dalle (R)esistenze di Rosarno, titolo del film e luogo che l’aveva ospitata per video-documentare il lavoro di Medici Senza Frontiere nel 2004. Tre giorni di riprese, un’immersione che l’ha colpita nel profondo. Ci sono voluti 9 anni per ritornare su quelle immagini, suoni, odori e sapori, per un approccio che tenta – riuscendoci – a catturare la giusta distanza. Almeno quella percepita da Greta, viscerale sensibilità dall’animo migrante. Ancora non erano accaduti “i fatti di Rosarno” pertanto il documento risuona ancora di quella vita di sospensioni, di una quotidianità equilibrista tra la violenza della vita rurale (scioccante ma naturale lo sgozzamento della pecora su cui la regista risiede la videocamera lungo..) e quella del paese: l’intervento elaborativo è (apparentemente) ridotto ai minimi termini, ciò che conta è far emergere il profilmico, ovvero ciò che esiste a prescindere e che ha dignità di essere mostrato in quanto tale. Segmenti di vita scomposti e ricomposti soggettivamente a fine visione, ciascuno è testimone del proprio Rosarno che diventa uno stato d’animo e che “anche se non lo vedi continua a esistere”.

Bortoluzzi si fa invece largo nelle diffidenze di Erto, borgo delle Alpi friulane coinvolto  dalla tragedia del Vajont. Dal 1963 Erto ha subito la volontà di essere annullato dalla Storia: prima dalla natura, poi dall’uomo. Ne La passione di Erto si avverte il parallelismo tra la voglia di alcuni ertani di sopravvivere in situ ad ogni costo, e la perseveranza di una tradizione – la messa in scena della Via Crucis il Venerdì Santo – che supera la religione mescolando antropologie ancestrali di quei territori. Lo sguardo insegue gli ertani (il lavoro di scoperta di Penelope di quella realtà risale al 2005, momento di inizio di assorbimento e poi entrata nel loro universo) attraverso materiali d’archivio (inclusivi dei primi momenti seguenti il drammatico crollo del monte Toc nel lago artificiale)  e girati originali delle prove ed infine della messa in scena finale della Passione.

Greta e Penelope concorrono allo stesso premio accanto a una manciata di altri colleghi, prevalentemente uomini. Intimamente sognano una vittoria, foss’altro per rispondere a tante fatiche, coraggio e tempo. Ma il riconoscimento più grande traspare già dai loro occhi, luminosi di aver scoperto alcune verità che nessuno potrà loro sottrarre.

 

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